Dopo la fase acuta dell’emergenza sanitaria la crescita dell’occupazione è stata di un’intensità che non conosce precedenti. I bollettini dell’Istat aggiornano ogni mese i record storici per il numero assoluto degli occupati (23,7 milioni) e dei contratti a tempo indeterminato (15,8 milioni). Nonostante queste performance, che hanno smentito i profeti di sventura che paventavano la perdita di un milione di posti di lavoro in uscita dal blocco dei licenziamenti alla scadenza del 31 dicembre 2021(da quella data i posti di lavoro sono aumentati di 1,5 milioni), il nostro Paese è nel frattempo retrocesso all’ultimo posto, superato anche dalla Grecia, tra quelli aderenti all’Ue, come tasso di occupazione (61,8% rispetto a una media superiore di 10 punti) equivalenti a 3,6 milioni di posti di lavoro a parità di popolazione.
Questo significa che siamo ancora distanti dall’utilizzare in modo adeguato le risorse umane disponibili, una condizione aggravata dal numero delle persone a carico di quelle che lavorano che tenderà ad aumentare anche nei prossimi anni a un ritmo superiore a quello degli occupati per via delle dinamiche demografiche già consolidate per i prossimi 15 anni e la previsione di una perdita di circa 5 milioni di persone in età di lavoro e un parallelo aumento di 2,5 milioni di pensionati.
Quello appena descritto non è l’unico paradosso che dovremo affrontare. Il sottoutilizzo delle risorse umane, le circa quattro milioni di persone in cerca di lavoro o inattive propense a lavorare, coincidono con la crescita dei posti offerti dalle imprese che non trovano lavoratori disponibili. Le tecnologie corrono veloci, aumenta il fabbisogno di lavoro qualificato, ma la nostra capacità di adeguare i percorsi formativi sta peggiorando in modo preoccupante. Ma a ben guardare, la carenza di profili specializzati, che richiede risposte adeguate ma che dipendono da una programmazione che produce effetti nel medio periodo, rappresenta solo la faccia nobile del problema. Infatti, una parte significativa dei posti vacanti non richiede la partecipazione a corsi di formazione lunghi e sofisticati, ma delle competenze che possono essere acquisite con percorsi di addestramento nell’ambito lavorativo.
Sono posti di lavoro che non riscontrano, per diversi motivi, un particolare gradimento nelle nuove generazioni anche a prescindere dal valore delle retribuzioni. La stagnazione dei salari e la quota rilevante delle qualifiche con basse retribuzioni rappresentano un serio problema per l’economia e per il mercato del lavoro italiano. Ma non riguardano solo i nuovi posti di lavoro, ma anche qualche milione di persone che ogni mattina si recano al lavoro per far fronte alle esigenze personali e familiari e contribuire ai fabbisogni della collettività.
Si può, e si deve fare molto per migliorare la qualità del lavoro e il valore delle retribuzioni. Sono aspettative legittime e che fanno parte storicamente del progresso economico e sociale delle società moderne. Le innovazioni tecnologiche che abbiamo a disposizione sono in grado di cambiare in meglio le organizzazioni del lavoro e di favorire la crescita della produttività per conseguire questi obiettivi. Ma dobbiamo toglierci dalla testa che possano essere raggiunti senza impegni e sacrifici e un approccio valoriale fondato su una corretta ponderazione dei diritti e dei doveri delle persone.
Per mantenere l’equilibrio da sottosviluppo che caratterizza interi settori economici che registrano bassi livelli di investimenti ed un elevato sfruttamento di manodopera servono più immigrati. E a teorizzare questa deriva sono proprio coloro che si autoproclamano paladini dei lavoratori stranieri.
Il lavoro sommerso è la palla al piede che comprime la possibilità di far crescere i salari contrattuali e la condizione che rende improbabile anche l’efficacia di un eventuale salario minimo legale. Infatti, l’evasione delle norme continua a essere rilevante anche per la parte fiscale dei redditi, come conseguenza delle prestazioni sommerse.
Nel frattempo, altro paradosso, molti dei nostri giovani diplomati e i laureati, circa 400 mila negli ultimi 10 anni, si sono trasferiti in altri Paesi. Non è un numero eccessivo. È un fenomeno persino necessario per consentire loro di fare esperienze lavorative di buona qualità. Il dato preoccupante è che la gran parte di loro non torna e che in generale il nostro Paese non risulta attrattivo per le risorse umane qualificate. Se non rendiamo attrattivo il nostro territorio per gli investimenti e per le risorse umane qualificate diventa pressoché impossibile assicurare la sostenibilità della transizione ecologica e digitale dell’economia che richiede l’impiego di notevoli risorse anche per assecondare l’aumento dei vincoli normativi e per far fronte ai rischi geopolitici che condizionano le scelte aziendali.
Aumentare la produttività e i salari con obiettivi di medio e lungo periodo dovrebbe essere l’oggetto primario delle scelte politiche e delle rappresentanze del mondo del lavoro. La condizione necessaria anche per far fronte anche ai nuovi fabbisogni di spesa sociale e per la redistribuzione del reddito. Ma buona parte della classe dirigente politica, imprenditoriale e sindacale teorizza e rivendica che debba essere lo Stato a generare la ricchezza facendosi carico di sostenere la redditività delle imprese, i redditi delle persone e persino di una parte dei salari dei lavoratori con supplementi di spesa pubblica e di aumento del debito. Una classe dirigente che appare più preoccupata per i vincoli che gli altri Paesi dell’Ue vogliono introdurre nel Patto di stabilità per limitare la crescita dei deficit e dei debiti pubblici anziché della nostra palese incapacità di utilizzare le risorse finanziarie già disponibili. Una cosa priva di senso destinata ad accelerare la deriva autoreferenziale e parassitaria che sta deteriorando la qualità delle relazioni delle nostre comunità.
È l’ultimo dei paradossi, ma è quello che impedisce di affrontare i problemi assumendo il principio di realtà.
Natale Forlani
Pubblicato su www.ilsussidiario.net