Il documento approvato dal Cnel sulle politiche salariali, confortato dall’adesione di una larga maggioranza delle rappresentanze sociali, riscontra il mandato affidato dal Governo di offrire una valutazione documentata del potenziale impatto della Direttiva europea sul salario minimo sui contratti collettivi di lavoro e sulle politiche salariali in Italia. Un incarico scaturito dalla provvisoria sospensione della discussione parlamentare sul disegno di legge presentato dalle forze politiche dell’opposizione (con l’esclusione di Italia Viva) che propone l’introduzione di un salario orario minimo legale di nove euro per tutti i lavoratori, compresi quelli occasionali e parasubordinati, con l’unica esclusione dei lavoratori domestici.
Il voto contrario della Cgil e della Uil, con l’aggiunta del rappresentante dei sindacati di base e di 5 esperti, ha sancito la frattura del fronte sindacale, che nella fase di gestazione della Direttiva europea aveva espresso un dissenso unanime sull’opportunità di un intervento legislativo sulla materia. Il documento in questione, come evidenziato nel recente articolo di Giuliano Cazzola (CLICCA QUI), offre una lettura che smentisce molto degli argomenti utilizzati dai sostenitori del salario minimo legale: l’obbligo di adottare una legge derivante dalla Direttiva europea; l’esigenza di contrastare con questo mezzo l’espansione dei contratti pirata sottoscritti da organizzazioni sindacali prive di rappresentanza che generano una concorrenza sleale rispetto agli importi salariali previsti nei contratti collettivi sottoscritti dai sindacati più rappresentativi; la quantificazione dei 9 euro coerente con i criteri per stabilire l’importo del salario minimo suggeriti dal dispositivo europeo; la riduzione del numero dei lavoratori che percepiscono redditi da lavoro inferiori al 60% di quello mediano (i cosiddetti lavoratori poveri).
L’importo di un eventuale salario minimo di 9 euro orari risulta superiore rispetto al valore del salario mediano (7,2 euro) stimato sulla base dei criteri indicati dalla direttiva (60% del salario mediano ovvero il 50% di quello medio). Una valutazione peraltro condivisa da numerosi economisti e giuslavoristi favorevoli all’introduzione di un salario minimo legale. La crescita dei redditi da lavoro poveri su base annuale dipende essenzialmente dalle ore effettivamente lavorate, che risultano al di sotto della media nei settori caratterizzati da elevata stagionalità e dal numero dei contratti a termine e a tempo ridotto.
Nel breve periodo questo percorso risulta pregiudicato dall’ostilità manifesta della maggioranza delle organizzazioni sindacali e dal palese proposito di spostare nelle sedi politiche (la Commissione parlamentare che deve discutere il disegno di legge presentato dalle forze politiche dell’opposizione), il confronto sulla materia. Un percorso destinato ad arenare per la manifesta contrarietà della maggioranza parlamentare e delle parti sociali sulla proposta di legge in discussione.
Per quanto minoritario, il fronte dell’opposizione politica, con il sostegno della Cgil e della Uil, ha trovato una solida sponda in una parte della Magistratura che sta offrendo il suo contributo per demolire l’autorevolezza della contrattazione collettiva. Alcune sentenze, in particolare quella della Corte di Cassazione di Torino del 2 ottobre contesta l’interpretazione consolidata dell’art. 36 della Costituzione (il salario giusto rapportato alla quantità e alla qualità della prestazione e ai bisogni del nucleo familiare) offerta da numerosi pronunciamenti della Corte Costituzionale che lo identificano con gli importi salariali previsti dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. Nelle sentenze richiamate tale riferimento risulta inadeguato e spetta al Magistrato valutare la congruità della retribuzione del lavoratore in relazione ad altri parametri, in particolare l’andamento dei salari medi nel complesso dei settori economici.
La proposta di un salario minimo legale che prescinde da una corretta valutazione di compatibilità economica delle specificità settoriali e la demolizione del ruolo della contrattazione collettiva per via giudiziaria ripropongono in via di fatto l’idea del salario come variabile indipendente dalla crescita dell’economia e della produttività di infausta memoria. Una teoria che pretende di stabilire in ambito politico, o giudiziale, il valore del salario adeguato come condizione per la gestione delle attività produttive. Un approccio destinato, nel migliore dei casi, a favorire una crescita dei prezzi. Nel peggiore ad aumentare la quota delle prestazioni sommerse, come già avviene in numerosi comparti del sistema produttivo.
Infatti, i sostenitori dell’intervento, oltre a trascurare di analizzare le cause della bassa crescita dei salari, prevedono anche il concorso dello Stato, tramite un apposito fondo stanziato con la Legge di bilancio, per sovvenzionare il salario minimo nei settori che registrano importi retributivi inferiori a quello disposto sulla base di criteri politici esposti alla variabilità degli orientamenti dei Governi e dei Parlamenti.
L’impraticabilità di una politica dei redditi che preveda un concorso di iniziative concertate tra il Governo e le parte sociali per l’obiettivo di favorire una crescita dei salari parallela a quella dell’economia e della produttività non esclude la possibilità di cercare altre vie per rimediare le criticità evidenziate nel documento del Cnel.
La prima riguarda il mancato rinnovo dei contratti collettivi, in particolare nei settori dei servizi caratterizzati dai bassi salari. Una recente analisi dell’Istat mette in evidenza un recupero della redditività delle imprese di questi settori superiore a quella precedente la pandemia Covid e una contemporanea riduzione della quota del valore aggiunto distribuita ai lavoratori. Una risposta positiva in questa direzione per i lavoratori interessati vale più dell’eventuale aumento dei salari minimi che riguarderebbe solo la quota, molto limitata, dei lavoratori inseriti nell’ultimo livello degli inquadramenti professionali.
La riduzione della popolazione in età di lavoro nei prossimi anni deve trovare risposte migliorando le condizioni di utilizzo degli attuali lavoratori a termine e a part-time. Una tendenza che è già in corso, certificata dall’aumento costante dei rapporti a tempo indeterminato superiori alla crescita dell’occupazione, che potrebbe essere accelerata con dei provvedimenti legislativi e contrattuali.
Tra questi la possibilità di cumulare i sostegni al reddito per la temporanea mancanza di lavoro con i salari derivanti da rapporti di lavoro a termine entro una determinata fascia di reddito esentata dalle tasse. Un’innovazione già introdotta con la riforma del Reddito di cittadinanza, che potrebbe essere ampliata per incentivare la disponibilità dei percettori dei sostegni al reddito ad accettare le offerte di lavoro nei settori caratterizzati dalla stagionalità delle prestazioni, assicurando nel contempo a questi lavoratori un reddito annuo dignitoso.
È in atto un cambio di paradigma nel modo di concepire il lavoro indotto dall’utilizzo delle tecnologie digitali e dal fabbisogno di investire sulle competenze e sui livelli di coinvolgimento dei lavoratori nelle strategie delle imprese che non viene colto dai sostenitori del salario minimo legale e dell’intervento dello stato sulle politiche salariali. Ma deve essere ancora misurata la capacità dei protagonisti del mondo del lavoro, a partire dalle rappresentanze datoriali che hanno condiviso il documento del Cnel, di offrire delle risposte alternative convincenti.
Natale Forlani
Pubblicato su Il Sussidiario.net