La decisione assunta dalla maggioranza parlamentare di rinviare a settembre la discussione sul salario minimo legale è stata accolta con favore dalle forze politiche dell’opposizione che avevano presentato il disegno di legge sulla materia. In effetti l’accantonamento dell’emendamento, che avrebbe messo fine al percorso parlamentare del Ddl., segna un punto a favore dei proponenti. Un risultato confortato da un sondaggio diffuso sui mass media che attesta il consenso della stragrande maggioranza degli italiani, compresi gli elettori dei partiti che sostengono il Governo, sul provvedimento in questione.
L’errore di fondo è quello di ritenere che l’introduzione del salario minimo legale possa offrire una risposta concreta ai tre aspetti critici della questione salariale: una maggiore tutela per le basse qualifiche; la riduzione del numero dei lavoratori poveri; la crescita dei salari reali.
L’obiettivo di tutelare i salari minimi, come ricordato in più occasioni, è l’oggetto di una Direttiva europea che dovrebbe essere attuata dagli Stati nazionali entro il 2024. L’occasione per rimediare, a detta dei promotori del ddl, la condizione anomala del nostro Paese, che si ritrova in compagnia di Austria, Danimarca, Svezia, Finlandia, Norvegia, che non prevedono una legge specifica sulla materia. Come più volte abbiamo cercato di evidenziare negli articoli dedicati al tema, la Direttiva europea non pone affatto il vincolo di tutelare i salari minimi per via legislativa, ma si rivolge ai Paesi aderenti che hanno un livello di copertura della contrattazione collettiva inferiore al 70% dei lavoratori dipendenti e con salari minimi effettivi inferiori 60% di quello mediano nazionale. Buona parte dei quali hanno già adottato con scarso successo il salario minimo legale. I sei Paesi che non lo prevedono si collocano tra quelli con livelli di copertura contrattuale superiore all’80% dei dipendenti (97% per l’Italia).
Il disegno di legge cerca di conciliare questa interpretazione dell’art. 36, con l’introduzione di un salario minimo legale che viene stabilito dal legislatore, che nega il valore del ruolo autonomo della contrattazione collettiva. Offrendo di fatto una via legale alle imprese per fuoriuscire dall’applicazione dei contratti collettivi.
Il disegno di legge propone un salario minimo equivalente di 9 euro (superiore ai 7,8 euro del salario mediano in Italia), a detta dei proponenti, per ridurre il numero dei lavoratori poveri. Che i contratti collettivi, anche quelli sottoscritti associazioni sindacali più rappresentative, non sono in grado di tutelare in modo adeguato.
La definizione di lavoratore povero utilizzata nelle statistiche Eurostat/Istat è quella del dipendente, o assimilato, che lavora per meno di 6 mesi e appartiene a un nucleo familiare con un reddito inferiore al 60% di quello mediano nazionale. Basta poco per comprendere che non esiste alcuna relazione diretta tra i salari orari minimi dei contratti collettivi e il numero dei lavoratori poveri che viene rilevato in relazione alla durata dei rapporti di lavoro e dall’intensità dei redditi familiari. Condizionati a loro volta dal tasso di occupazione che in Italia risulta essere il più basso tra i paesi dell’Ue (circa -3,4 milioni di occupati a parità di popolazione).
Quale contributo potrebbe offrire l’introduzione di un salario minimo legale a ridurre questi fenomeni (basso tasso di occupazione, prestazioni temporalmente limitate, lavoro sommerso) non è lecito sapere. Secondo numerosi esperti, un salario minimo legale non rapportato alle condizioni specifiche dei settori, delle imprese e dei territori, e al lavoro domestico e nel Mezzogiorno, potrebbe persino comportare una diminuzione delle opportunità di lavoro regolari e un aumento delle prestazioni sommerse.
L’insieme di queste evidenze ridimensiona anche il proposito di utilizzare il salario minimo per attivare la leva della crescita dei salari reali. La questione salariale esiste, eccome, in Italia. Ma nelle statistiche Ocse ed Eurostat la stagnazione dei salari medi reali italiani risulta motivata da due fattori: la bassa crescita della produttività, in particolare nei settori ad alta intensità di occupazione; la riduzione del numero delle qualifiche medie e alte sul complesso degli occupati. Due fattori che influenzano in modo determinante la crescita della ricchezza e la distribuzione del valore aggiunto.
Questi fattori non vengono nemmeno presi in considerazione nel dibattito italiano sulle politiche salariali. Che mette al centro dell’attenzione l’aumento dei trasferimenti statali per sostenere i redditi e i salari e gli interventi normativi finalizzati a condizionare i comportamenti delle imprese e delle parti sociali.
Tutto ciò in presenza: di un potenziale di risorse finanziarie e tecnologiche in grado di aumentare la produttività e di migliorare le condizioni di lavoro; di una domanda di lavoro delle imprese che viaggia a ritmi superiori all’offerta di lavoratori disponibili e con le competenze adeguate; dei dipendenti a tempo indeterminato che crescono a ritmi superiori degli occupati in generale; dei livelli di redditività delle imprese, comprese quelle dei servizi, che viaggiano a ritmi superiori a quelli dei salari. Ci sarebbero tutte le condizioni favorevoli per ripensare le politiche salariali e la qualità dei rapporti di lavoro per favorire miglioramenti strutturali anche sul medio e lungo periodo.
Il mancato rinnovo di una parte significativa dei contratti collettivi del commercio e dei servizi è una criticità largamente superiore a quella del salario minimo. In questi comparti, se non cambiano le strategie delle imprese e delle parti sociali, si rischia davvero di non trovare lavoratori disponibili nell’immediato futuro.
Senza un approccio convergente, e costruttivo, delle parti sociali le scorribande della politica possono provocare danni irreparabili. Inseguire i sondaggi allontana dalla realtà.
Natale Forlani
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