L’amico prof Leonardo Becchetti ha scritto su Avvenire (CLICCA QUI) un articolo sulla sanità “Sanità e relazioni. Il potere della gentilezza nel progresso delle cure mediche”: molto interessante.
Peccato che nell’ultimo paragrafo faccia un errore: “…Esiste in ogni caso un fattore di successo della sanità, quello relazionale, essenzialmente a costo zero, in grado di apportare miglioramenti significativi al risultato finale…”
E’ vero: il fondamento della “relazione di cura”, cardine di ogni processo in sanità, è l’alleanza terapeutica tra team curante e paziente (e suo contesto): ed è vero che “relazione di cura e alleanza terapeutica” si costruiscono all’interno di quel rapporto di reciprocità relazionale tanto umanamente splendido quanto tutt’ora misterioso nelle sue origini e dinamiche.
La reciprocità relazionale dovrebbe essere presente in tutti gli scambi umani (e probabilmente violenza e guerra sarebbero meno frequenti), ma in alcune attività – quelle di aiuto o educative – la capacità di relazione e empatia appare essere “pre-requisito essenziale”.
Dove sta allora l’errore dell’amico prof Becchetti?
Nell’inciso: …” essenzialmente a costo zero” …. E non per riaffermare l’esistenza di una questione economica e retributiva che pure esiste.
Nessuno, in un mondo che abbiamo imparato a capire come globale e in un “economia necessariamente circolare”, può perseguire i propri obiettivi da solo: serve coerenza con il contesto.
Allarghiamo lo sguardo.
Nello stesso articolo il prof Becchetti scrive come “…. i pilastri per la nostra soddisfazione di vita sono essenzialmente tre: ricchezza di senso del vivere, qualità della vita di relazioni, opportunità di una vita generativa …” Giustissimo.
Il senso del vivere lo si può sicuramente scoprire all’interno di una attività professionale come quella sanitaria e socio-assistenziale, anche in un contesto socialmente arido come quello attuale, perché aiutare l’altro lo può favorire: ma, quando si lavora in un contesto organizzativo (non da soli a casa propria, nel proprio studio), tutta l’organizzazione, dalle norme che la regolano fino ai comportamenti dei vertici “aziendali”, (ospedale, casa di cura, centro di riabilitazione, ASL, Residenza Sanitaria territoriale, Distretto, di dipartimento, di servizio) devono avere la “medesima cornice di senso” che la guida così che ci sia coerenza nei processi organizzativi e operativi concreti.
La scellerata riforma del ministro De Lorenzo – istituzione delle aziende in sanità – ha introdotto il concetto che il “senso dell’agire” in sanità doveva essere l’equilibrio economico raggiungibile attraverso l’efficienza organizzativa ottenibile grazie alla “aziendalizzazione”: poco importa che poi l’efficienza non sempre è stata raggiunta o ancora non si raggiunge, ed è solo incidentale il fatto che le esigenze di salute siano esponenzialmente aumentate (invecchiamento, consapevolezza del benessere, nuovi concetti di benessere) e che la tecnologia e la scienza con le loro meritorie scoperte hanno aumentato la necessità di risorse.
L’introduzione del concetto di “azienda” – nell’ottica occidentale vigente e maggioritaria nell’opinione pubblica (ben lontana dalle logiche di “economia civile”– ha ribaltato il senso della finalità dell’agire nelle organizzazioni sanitarie, anche pubbliche: da “curare le persone”- utilizzando tutte le conoscenze disponibili all’interno dei vincoli materiali dati dalle contingenze – in primis economiche – che possono anche essere molto cogenti, a “erogazione di beni e servizi” in una matrice organizzativa che ha l’obiettivo di perseguire prima di tutto l’equilibrio di bilancio: dal principio di sostenibilità, agli obiettivi di budget e di bilancio, concetti del tutto diversi.
E in un sistema “pubblico”, vincolato addirittura da un fine costituzionale, questo cambio di paradigma è oggettivamente un “vulnus” logico, concettuale e antropologico.
Si parla di “Salute”, ma si sono introdotti principi e sistemi che misurano solo gli obiettivi economici, e sono questi i “driver” dell’agire: di conseguenza, si decide e si delibera cambio o rinnovo di vertici aziendali e di norme in base agli obiettivi economici da perseguire. Poco importa che siano poi raggiunti davvero o che siano solo la “scusa” per giustificare decisioni politiche: quei principi sono la “testata d’angolo” su cui è costruito tutto l’impianto sanitario e socio-sanitario degli ultimi trent’anni e che informa l’agire delle organizzazioni sanitarie e socio-sanitarie: senza distinzioni.
Tutte le schede di budget –ad ogni livello – sono costruite su indicatori economici, al più con il numero delle prestazioni erogate: malati, complessità delle malattie, sofferenza e qualità della vita, miglioramento della salute ottenuto – almeno di quelli curati – sono lasciati semmai agli studi – ossia alle ricerche – epidemiologiche e di outcome E non rientrano mai negli obiettivi “aziendali” né di breve, né di lungo periodo: semmai servono per fare convegni: ossia “parlare di salute”.
Men che meno, trovano spazio indicatori della qualità della relazione di cura e il senso di benessere di chi ci opera: quest’ultimo è anzi visto solo in funzione del rapporto stipendiale che viene generato o al più come fattore importante per non perdere addetti e quindi “prestazioni” e “budget”.
Questo settore, quindi, non è affatto diverso dagli altri settori industriali di cui segue le logiche. E se il “senso del vivere” è nell’aumento della “catena del valore”, complicato scegliere una “professione di aiuto”: e ancora più complicato sviluppare una “relazione di cura”.
Eppure, proprio in queste ore il Papa è a Vanimo [Papua – Nuova Guinea] – periferie delle periferie del mondo – dove pochi missionari cercano – tra le altre cose – di dare cure ad una popolazione poverissima, dove anche i medicinali più semplici arrivano con mesi di ritardo: immaginiamo la fatica, il senso di frustrazione di questi missionari e volontari; loro il “senso del vivere” l’hanno molto presente e vivo: non scappano e sicuramente non vanno in “burn out”.
“Qualità della vita di relazioni” è l’altro cardine citato, da sviluppare anche nel luogo di lavoro dove si passa mediamente la parte più consistente della vita.
In sanità, “relazioni tra colleghi e relazioni con il paziente”.
“Tempario” per le visite e le prestazioni per rendere più efficiente il sistema e rispondere meglio (!!)al bisogno, organizzazione della attività ordinaria anche nei giorni festivi (almeno come obiettivo dichiarato), scardinamento delle logiche di team (turnistica– rapporti di lavoro con crescente tasso di attività libero-professionale – tempi di equipe sempre più vincolati a obiettivi organizzativi o di ottimizzazione procedurale e burocratica).
Per migliorare l’efficienza, “parcellizzazione” della malattia a “sotto insieme” di fenomeni biologici da trattare singolarmente: la relazione di cura è racchiusa in una “responsabilità contrattuale”, tra struttura e paziente, tra operatore e struttura e tra medico e paziente, con tutto il costosissimo apparato assicurativo e di contenzioso legale che ne discende.
“Opportunità di una vita generativa”, cioè una vita orientata a impattare positivamente sulle forme del prendersi cura, nel caso di specie, e dell’organizzare il “prendersi cura”, con l’obiettivo di un ritorno “sociale” di condivisione, di benessere e di risultato.
In realtà, la attività è sempre più regolata secondo rigide procedure – sempre di qualità, ovviamente – che vincolano tutti, così da uniformare (a fin di bene si intende) i comportamenti di cura e così aumentare la protezione da colpe, vere o presunte. Deresponsabilizzati e iper-strutturati in un controllo sempre più burocratico.
“Relazione di cura possibile a costo zero”?
Nonostante tutto, alcuni operatori sanitari, cercano di resistere e di portare avanti il fondamento della “relazione di cura empatica, professionale e tecnicamente basata sulle evidenze”: fino a quando resisteranno, se non cambia il sistema che ne regola la attività?
“Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”. (Vita di Galileo – Bertol Brecht).
Massimo Molteni