Quando i partiti erano una cosa seria prendevano parte alle competizioni elettorali presentando ciascuno il proprio simbolo, senza bisogno di sovrapporvi il nome del leader che in quel momento li rappresentava.
Lo “Scudo Crociato” per la Democrazia Cristiana, “Falce e Martello” per il Partito Comunista, il “Garofano” per il PSI, l’ “Edera” repubblicana, il “Sole nascente” socialdemocratico, il “Tricolore” dei liberali, la “Fiamma” del MSI, erano tutte “icone eloquenti” che d’ un sol colpo, con una sola immagine, trasmettevano il senso compiuto di culture, di visioni del mondo che il programma di ciascun partito si faceva carico di declinare in chiave politica, ma che, anzitutto, avevano in sé piena legittimità, in virtù della consistenza e della coerenza storica che attestavano, nel bene o nel male, ognuna per la sua parte.
Questa passerella “passatista” farà sorridere molti cultori del “nuovo” a tutti i costi, eppure, anche sul piano della comunicazione e della sua immediata efficacia, aveva molto da insegnare a chi oggi di strategie comunicative si infarina, senza approdare a nulla, se non alla banalizzazione confusiva dei talk show, dove tutti si parlano addosso, recitando la lezioncina mandata a memoria, senza che vi sia spazio per una qualche interlocuzione dialettica tra le parti. Quando è saltata questa connessione tra storia, cultura, proposta politica i partiti si sono avvitati in una crisi irrisolvibile, cui si è vanamente cercato di porre rimedio aggiungendo al simbolo il riferimento esplicito al leader, dapprima timidamente e poi via via rovesciando le parti, cosicché è il simbolo che ha finito per essere ancillare al nome del “capo”.
In Veneto direbbero: “….peso el tacon del buso” (è peggio la toppa del buco). Ma, evidentemente, se si guarda, ad esempio, alle “suppletive” di Monza, non è finita qui. A riprova del fatto che quando ci si avvia per una china scivolosa non c’è limite al peggio. Cappato – onore al merito.. – ha letteralmente sbancato il tavolo e si presenta, infatti, con una lista – “con CAPPATO – senato 2023” – la cui identità culturale e politica, evidentemente, comincia e finisce con la sua persona.
In fondo, la cosa non sorprende, eppure, per altro verso, stupisce ove si consideri che al tavolo di Cappato siede tra altri – passi il PD – nientemeno che AZIONE. Il PD nel collegio di Monza e Brianza è una realtà tuttora ben radicata ed importante che annovera, tra le sue fila, anche esponenti cattolici che, sul piano locale, hanno avuto ed hanno un rilievo, anche istituzionale, non indifferente. Insomma persone rispettabilissime, ambienti qualificati che con la cultura radicale di Cappato nulla hanno da spartire, anzi stanno agli antipodi.
Com’è possibile che un partito di grande rilievo nazionale come il PD, alfiere dell’ opposizione parlamentare – in una elezione che è pur sempre rilevante, anche dal punto di vista mediatico, se non altro perché si va ad eleggere chi succeda in Senato a Silvio Berlusconi – nemmeno possa apporre il suo simbolo sulle scheda elettorale e debba farsi rappresentare, per interposta persona, da un candidato addirittura divisivo al suo interno? Perché questa ritirata, se non per una degenerazione del confronto politico esclusivamente orientato ad un braccio di ferro tra schieramenti avversi, che si risolve in una mera prova di forza e, dunque, si esaurisce sul piano della conta dei consensi, senza alcun riguardo alla coerenza interna dei nudi e crudi aggregati elettorali che si confrontano? Insomma, tutto fa brodo…
La riprova la fornisce AZIONE che, a sua volta, per l’elezione monzese si risolve e si dissolve nell’abbraccio – qui c’è da ritenete convinto e culturalmente conforme – con Cappato. Salvo rivolgere, in altro contesto, un appello a concordare e convergere con le proprie posizioni, congiuntamente a radicali e popolari. Senza cogliere la contraddizione insanabile, eppure non avvertita da chi ragiona solo in termini di potere oppure ha di sé tale alto concetto da ritenere che ogni differente opzione culturale e politica debba essere necessariamente ancillare alla propria.
Domenico Galbiati