Che la vita sia un “dono” e come tale venga accolta o piuttosto sia considerata un possesso esclusivo ed autoreferenziale, fa la differenza. Anzitutto a fronte delle questioni eticamente impegnative, argomento, tra gli altri, di quel “discorso pubblico” cui insieme devono concorrere credenti e non credenti, secondo quella metrica che Ratzinger ed Habermas hanno discusso nel loro confronto dell’ormai lontano gennaio 2004.
L’attitudine a percepire la vita come dono suscita un sentimento di stupore, di gratitudine e di riconoscenza. Genera una domanda e suscita un’attesa. Attesta una relazione, ancora misteriosa ed oscura, eppure avvertita come il momento originario, irriducibile, indeclinabile del proprio apparire alla vita. Anzi, la “relazione” come tale; la relazione , in sé, si manifesta come il dato sostanziale attorno a cui prende forma il primo nucleo dell’ “io”. In questo senso, si tratta di un’esperienza universale, comune a tutti e, come tale, anche quando non venga espressamente messa a tema, resta nel profondo della coscienza di ognuno. E lì, per lo più, persiste anche in chi non crede in Dio quale fonte della vita, eppure, secondo il sentimento di una religiosità naturale, avverte di non essere solo, riconosce una dipendenza, sia pure dalla profondità indecifrabile del cosmo e dalla meraviglia stupefacente della natura. Anche questo è, nel suo genere, un modo di considerare la vita un dono.
Eppure – e nel nostro tempo secolare, in modo accentuato – compare spesso una torsione che quando si consolida dentro un costrutto ideologico diventa inattaccabile. Una torsione non nuova che – indotta da derive culturali collettive e, nel contempo, da inclinazioni soggettive – allude ad una pretesa di auto fondazione e, dunque, ad un sentimento solipsistico di autosufficienza.
La libertà si rattrappisce nelle forme dell’ “autodeterminazione” e questo concepire la vita come un bene da padroneggiare “da se'”, scivola insensibilmente in un “per se'” che finisce per diventare un limite costrittivo.
Una misura colma di individualismo tale per cui, si potrebbe dire, la vita comincia e finisce entro il perimetro della pelle di ciascuno, rende difficile riconoscerle quel senso compiuto che pur rappresenta, lo si riconosca o meno, l’aspirazione insopprimibile di ognuno. Traguardo che si può conseguire pienamente solo in un orizzonte che – senza smarrire nulla della ricchezza di ciò che sperimentiamo nell’immanente che attraversa la storia di tutti i giorni – si apra alla dimensione della trascendenza.
Insomma, registriamo una distinzione tra due orientamenti di fondo, che assegna allo stesso campo coloro che, credenti oppure no, avvertono la vita come “dono” e questo elementare, embrionale, ma originario sentimento comune apre e nutre uno spazio di dialogo possibile che e’ doveroso esplorare.
Le questioni eticamente sensibili, in ultima analisi, sono per noi, per quanto concerne l’ orientamento da assumere, molto semplici: basta non scostarsi di un palmo dal Magistero e dalla Dottrina Sociale della Chiesa. Magari avessimo un indirizzo altrettanto sicuro in altri campi – ad esempio, sul piano delle politiche istituzionali o di quelle economiche – dove dobbiamo, invece, arrabattarci da soli.
La vera sfida, importante e difficile, alla quale non possiamo sottrarci, se non vogliamo seppellire i nostri talenti, è piuttosto un’altra: come rendere conto, sul piano della mera razionalità – dunque, accedendo ad un terreno di confronto che neppure il laico più incallito può ricusare – dell’ intensità umana e del valore sul piano della convivenza civile di un indirizzo che noi desumiamo dall’orizzonte della fede, ma che anche a noi deve pur dirsi e deve darsi sul piano della ragione.
Da qui si può evincere quanto sia impegnativa ed irrinunciabile la funzione di un attore politico di ispirazione cristiana, che non si limita a coltivare il proprio campo, ma si fa carico – forte e serenamente consapevole della propria identità – di un compito, di una sfida diretta a proporre la concezione della vita in cui crede come accessibile alla collettività in quanto tale e, dunque, possibile fondamento di una “citta’”, orientata ad un “bene comune”, fortemente attestato sulla verità dell’uomo. Non si tratta di scivolare su un piano religioso o para-religioso, ma di trattenerci pienamente sul terreno della politica.
Ma, per tornare alla vita intesa come “dono” piuttosto che come “proprietà'” gelosamente trattenuta, va detto che il dono anzitutto è tale se, a sua volta, dispone al dono. Soprattutto, il dono è irrevocabile, dato una volta per tutte, stabilisce una “relazione” che resta, resiste al tempo, ad un tempo che non ritorna ciclicamente su se stesso, come riteneva la stessa cultura classica, ma procede linearmente ed afferma il senso della vita secondo questa sequenza irreversibile, contrassegnata da tappe miliari, da momenti topici che non possono essere rimossi o rovesciati nel loro contrario.
Prima dei vent’anni, ad esempio, si sceglie un indirizzo professionale, cioè si rinuncia per sempre a tutte le altre opzioni possibili, magari accarezzate o sognate, perfino tutte insieme, secondo la passione di quel momento magico.
Eppure, si decide e non ci si torna più su. Una volta per tutte. E se così non fosse si girerebbe in tondo attorno a se stessi, per poi finire in un fatale surplace. E non ci sono forse altri momenti, altrettanto e perfino più rilevanti nella vita di ognuno che si danno “una volta per tutte”? Tanto più irrevocabili, quanto più è forte e profonda la “relazione” che li costituisce, secondo la forma di una responsabilità che assume l’ “altro” come destinatario di un dono?
Su questo piano, c’è spazio per un approfondimento comune tra credenti e non credenti che non siano rabbiosamente radicalizzati in una postura ideologica preconcetta e pregiudizialmente ostile? Perfino, i temi delle due grandi battagli referendarie che nel ‘74 e poi ancora nell’ ‘81 hanno visto i cattolici soccombere, aprendo un’autostrada all’avanzata della cultura individualista, che si è intestata la stagione dei diritti civili, non sarebbero stati declinati forse diversamente, se coniugati secondo questa logica del dono – dato una volta per tutte e non revocabile – cui si può accedere razionalmente e non solo in virtù di un’opzione religiosa? Se ne può trarre un insegnamento che valga anche a fronte di argomenti e sfide che ci impegnano anche oggi ed ancora ci affaticheranno domani?
Domenico Galbiati
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