In un recente articolo (CLICCA QUI), con l’ausilio di una comparazione tra le stime effettuate dall’Istat sulla popolazione in condizioni di povertà assoluta e i dati relativi ai beneficiari del Reddito di cittadinanza, abbiamo evidenziato le rilevanti discrepanze esistenti tra le due platee e la scarsa efficacia del provvedimento per la finalità di contrastare il fenomeno dato che, nel frattempo, il numero delle persone povere è aumentato in modo significativo sino a raggiungere il massimo storico dei 5,7 milioni nel corso del 2021. Tutto ciò, nonostante il rilevante aumento delle prestazioni assistenziali e di quelle specifiche riservate al Reddito di cittadinanza.
In particolare gli esiti delle erogazioni del Reddito di cittadinanza nel 2021 pubblicati dall’Osservatorio dell’Inps (1,771 milioni di domande accolte per 3,956 milioni di persone che comprendono anche le prestazioni per le Pensioni di cittadinanza) evidenziano che il numero dei beneficiari nelle regioni del Mezzogiorno risulta di gran lunga eccedente quello delle persone povere stimate dall’Istat. La copertura delle prestazioni rispetto al numero delle persone povere stimate dall’Istat risulta più che dimezzata per le famiglie residenti nel nord Italia, per quelle numerose e con minori a carico e per la componente dei cittadini stranieri che rappresentano il 34% delle persone povere residenti nel nostro Paese.
Questi esiti sono dovuti, in particolare, ai criteri utilizzati per selezionare l’accesso alle prestazioni e il calcolo degli importi degli assegni che privilegiano le persone single rispetto ai nuclei familiari con tre o più persone, al requisito dei 10 anni di residenza nel nostro Paese che esclude una parte rilevante degli stranieri regolarmente residenti. L’utilizzo distorto delle risorse rispetto ai fabbisogni è stato amplificato dalla decisione politica di avviare il Reddito di cittadinanza facendo leva sulle auto dichiarazioni Isee da parte dei richiedenti in assenza di un sistema adeguato di controlli (le banche dati sui redditi e i patrimoni e l’anagrafe delle prestazioni assistenziali).
La Commissione di esperti nominata dall’ex ministro del Lavoro Nunzia Catalfo per una valutazione provvisoria del provvedimento, presieduta dalla Prof.ssa Chiara Saraceno, ha confermato nella relazione finale gli effetti distorsivi evidenziati in precedenza. In particolare, gli esiti penalizzanti per le famiglie numerose e per quelle composte da soli stranieri per via dei requisiti minimi di residenza (10 anni). Nella parte finale la Commissione formula 10 proposte per la riforma del Reddito di cittadinanza. In particolare, l’esigenza di ampliare i criteri di accesso e di calcolo degli importi per le famiglie numerose e per limitare a 5 anni il requisito di residenza nel territorio italiano per poter beneficiare dei sussidi.
In buona sostanza, la Commissione propone di rimediare il deficit di efficacia del Reddito di cittadinanza, allargando la platea, aumentando gli importi, gli incentivi per le politiche attive aumentando la spesa pubblica annuale destinata allo scopo di 2,5 miliardi. Singolare il fatto che per stimare l’efficacia delle risorse erogate per contrastare la povertà la Commissione Saraceno abbia preso come riferimento le auto dichiarazioni Isee rilasciate dai nuclei beneficiari, considerate non corrispondenti alle realtà dalla Guardia di Finanza per oltre il 60%, in alternativa alle indagini dell’Istat, senza offrire una seria valutazione del funzionamento dei sistemi di controllo disposti dalle normative e dell’impatto del lavoro sommerso sulla sottostima dei redditi dichiarati al fisco (equivalenti a circa 6 miliardi di ore lavorate).
In questo ambito l’eventuale riforma del Reddito di cittadinanza dovrebbe partire dall’esigenza di riportare la funzione dell’istituto a quella dei sostegni di ultima istanza per rimediare le condizioni di disagio delle famiglie rimaste nella condizione di povertà assoluta per svariati motivi (la non autosufficienza; i disagi psicologici; la dipendenza da alcol, droghe, gioco; carenza di lavoro di lunga durata legata a fattori di bassa occupabilità; l’abbandono scolastico, gli eventi traumatici familiari…) che per loro natura richiedono interventi personalizzati, tarati sulle persone e sul contesto, all’interno dei quali un elevato valore economico del sussidio può persino compromettere i risultati attesi. Infatti, le migliori esperienze europee sulla materia, troppo spesso richiamate a vanvera per giustificare l’ampliamento delle risorse per il Reddito di cittadinanza, ricalcano questo schema operativo.
Questo dovrebbe essere il punto di partenza per valutare le proposte di riforma del Reddito di cittadinanza nella nuova legislatura. L’evoluzione degli eventi e i risultati elettorali hanno ulteriormente favorito una contrapposizione tra due ipotesi di riforma del Reddito di cittadinanza. Una prima tesa ad ampliare l’orizzonte della misura e le platee dei potenziali interventi normativi a sostegno dei bassi redditi (salario minimo legare, garanzie per i minimi di pensione, fiscalità negativa per i redditi sotto soglia) che parte dal presupposto che l’incremento della povertà sia connaturato con le caratteristiche strutturali del sistema economico che devono essere contrastate con supplementi di interventi e di spesa pubblica da parte dello Stato. In quest’ambito lo scarso funzionamento delle politiche attive e le anomalie derivanti dalla non attendibilità delle dichiarazioni fiscali vengono considerate degli incidenti di percorso che non inficiano l’obiettivo generale. Sono tesi che stanno riscontrando un rilevante consenso non solo nel M5S, ma anche nel variegato complesso degli attori della sinistra italiana.
Sulla carta l’esito elettorale ha registrato il successo delle forze politiche che propongono di riformare l’istituto nella direzione “produttivista”, riservando i sussidi assistenziali alle persone impossibilitate a lavorare, incentivando le assunzioni da parte delle imprese per quelle in età di lavoro, vincolando i beneficiari dei sussidi ad accettare tutte le proposte di lavoro contrattualmente regolari. Nella realtà, il programma elettorale di queste forze politiche non è esente da proposte che rispecchiano gli orientamenti del fronte opposto, ad esempio sul tema delle pensioni anticipate e dell’aumento delle pensioni minime, e i parlamentari e gli amministratori locali eletti nel Mezzogiorno non sembrano affatto disposti ad assecondare un ridimensionamento dei sussidi in essere.
L’esigenza di concentrare gli aiuti di Stato sulla riduzione dei costi delle bollette sulle imprese e sui bassi redditi, e il semplice fatto che la gran parte degli attuali beneficiari del Reddito di cittadinanza potranno usufruire degli assegni in vigore per un periodo superiore a un anno, rendono probabile una riforma graduale del Reddito di cittadinanza che potrebbe nel breve periodo essere limitata ad alcune operazioni modifiche sul versante delle politiche attive per il lavoro.
Ma l’esigenza di riformare l’impianto del Reddito di cittadinanza alla luce degli esiti dell’Assegno Unico per i figli minori e dell’autonomizzazione dei percorsi di inserimento lavorativo rimane viva. Alla luce delle analisi fatte ci permettiamo di suggerire 6 linee guida che potrebbero orientare il percorso della riforma:
1) Migliorare la lettura dei fenomeni che concorrono alla formazione del bacino delle persone povere attualmente poco dettagliata e priva di un’analisi adeguata delle caratteristiche del lavoro sommerso e del suo impatto sulla distribuzione del reddito. È un mandato che deve essere assegnato all’Istat e non a commissioni di esperti designati dal ministro del Lavoro di turno per confortare le sue opinioni politiche.
2) Il sistema dei controlli deve essere dotato dell’Anagrafe nazionale delle prestazioni assistenziali erogate da tutte le amministrazioni, già previsto dalla legge ma non ancora attuato, e dal completamento rapido delle banche dati sui redditi e sui patrimoni. L’utilizzo delle autodichiarazioni Isee per accedere alle prestazioni dovrebbe essere circoscritto alle variazioni dei redditi e dei patrimoni intervenute in corso d’opera.
3) L’entità dell’assegno finanziario deve essere ridotta, anche in modo significativo, per i nuclei monocomposti aumentando il valore delle integrazioni per i nuclei anche con un provvisorio incremento dell’importo dell’Assegno unico per i minori a carico.
4) Gli enti locali devono essere coinvolti in modo attivo nel concorso delle prestazioni e per la gestione degli interventi finalizzati a rimediare o a contenere le caratteristiche della povertà. La riduzione media dei sussidi del Reddito di cittadinanza potrebbe essere compensata dall’erogazione dei servizi di varia natura a carico delle amministrazioni sostenuti da un apposito fondo nazionale di compensazione.
5) I servizi per la presa in carico e per la definizione dei percorsi di inclusione, ivi comprese le prestazioni integrative a carico degli enti locali, devono assumere un ruolo primario nella gestione degli interventi e per il proseguimento temporale dell’erogazione dei sussidi. Per le persone in età di lavoro, e in grado di lavorare, i benefici pro quota dovrebbero essere erogati solo a seguito della dichiarazione di disponibilità e condizionati all’accettazione di tutte le proposte di lavoro congrue, comprese quelle a termine. Per incentivare l’accettazione delle offerte di lavoro potrebbe essere consentito temporalmente un parziale cumulo temporale tra il sussidio e la retribuzione, e il ripristino del diritto al Reddito di cittadinanza alla cessazione dei rapporti di lavoro di breve durata.
6) Il requisito di residenza nel territorio italiano per accedere al Reddito di cittadinanza deve essere ridotto a 5 anni.
Natale Forlani