Il delitto di Senago è qualcosa di abominevole e di diabolico. Un atto, verrebbe da dire, commesso in odio all’ umanità come tale. La vittima ed il figlio che recava in grembo, in qualche modo, ci rappresentano tutti e le ferite loro inferte è come se ricadessero anche su di noi.

Dobbiamo chiederci: solo le vittime ci rappresentano oppure dobbiamo ammettere che, in senso lato, in una certa misura, secondo percorsi carsici e misteriosi della coscienza collettiva del nostro tempo, vale la stessa cosa per il carnefice?

Femminicidio ed infanticidio congiuntamente danno un senso di vertigine e, non a caso, l’opinione pubblica è colpita e, perfino, smarrita, senza parole di fronte ad un atto talmente malvagio da richiedere in chi l’ha commesso una sorta di compiacimento nel male.

La prima reazione di fronte ad un tale evento è quella di ritrarsi, di chiamarsi fuori, di stabilire uno iato incolmabile tra sé stessi ed un tale assassino. E’ un gesto istintivo di difesa, un moto spontaneo dell’ animo, un rifiuto immediato ed inconscio con il quale ciascuno cerca di sottrarre sé stesso dal rischio di un possibile contagio.

La follia è contagiosa. Quando ci si para davanti ha un che di mimetico e ci turba o addirittura ci spaventa. Ci accorgiamo che è un possibile versante del nostro comune essere “umani” e, dunque, ci fa sentire esposti, come fossimo sul ciglio di un dirupo, investiti da un “demone” che sorge incontrastato da regioni inesplorate dell’ esistere e può aggredire ciascuno di noi.

Ciò non di meno, di fronte ad un crimine del genere, pensiamo, anzitutto, alla malattia mentale. Ma la cosa non regge se pure fosse clinicamente accertata una franca patologia psichica. Infatti, i cosiddetti “alienati” sono molto meno alieni di quanto ci piaccia pensare. Estremizzano pulsioni che sono pur “dentro” il nostro tempo storico, le mostrano come venissero dall’ altra faccia della luna, quella che non vediamo mai, eppure è parte inamovibile dello stesso corpo celeste. A loro modo, ci dicono di noi stessi molto più di quanto siamo disposti ad ammettere.

La seconda reazione è quella di una emotiva, forte partecipazione ad un tale abisso di sofferenza, che, per quanto sicuramente sincera, si colloca sul versante della benevolenza e, senza che lo tematizziamo, ha pure una funzione lenitiva sulla nostra coscienza, come se la volessimo anestetizzare, compiacendoci dei nostri buoni sentimenti.

Non possiamo chiamarci fuori almeno per un aspetto: abbiamo “banalizzato” la vita. L’ abbiamo ridotta a bene di consumo, una sorta di gadget, oggetto di un desiderio narcisistico e volubile, manipolabile, priva di quella sacralità religiosa o laica che necessariamente dovrebbe sempre accompagnarla. Abbiamo scordato che la vita è un dono che ci trascende – “Deus sive natura” – che venga dal Creatore o dalla macchina cosmica.

Ci siamo illusi di poterne fare un “possesso” esclusivo ed autoreferenziale, cosicché, quando ci va a genio, possiamo buttarla alle ortiche come uno straccio logoro.
Fosse pure la vita innocente di un figlio.

Domenico Galbiati

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