Dopo decenni in cui lo Stato veniva considerato dalla dottrina neoliberista dominante come causa del mancato sviluppo e arretratezza del Paese, è arrivato il momento di vedere invece in esso un motore di crescita, non solo economica? Dopo la crisi finanziaria del 2008 e la pandemia del 2020, siamo chiamati a ripensare il ruolo dello Stato.
Diversi autori, da Giuliano Amato, Mariana Mazzucato a Paolo Gerbaudo, si sono chiesti se non è il caso di tornare allo Stato. Alcuni salutano questo cambiamento come una svolta epocale. Altri sottolineano le ambiguità del ritorno ad uno Stato teleocratico alla Hegel. Affermava J. M. Keynes già nel 1926 in La fine del laissez faire: ” La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio ed un po’ peggio, ma fare ciò che precedentemente non si fa del tutto“.
Siamo dentro un cambiamento d’epoca e il passaggio di consegne tra mercato e Stato potrebbe verificarsi. Stiamo uscendo dall’ “era neoliberista “. La realtà del capitalismo ci fa già vedere uno Stato interventista per salvare banche o correggere i fallimenti del mercato. Accanto ai tradizionali interventi welfaristi, concentrati sulla distribuzione della ricchezza, troviamo infatti interventi sul fronte produttivo, concentrati sulla politica industriale. Gli Stati, finita l’illusione di un ” mercato globale”, concepiscono l’economia planetaria come uno spazio di competizione attiva tra Paesi. Larghi settori delle classi dirigenti, che ieri accusavano lo Stato di sprechi, oggi invocano il suo intervento in ogni buona occasione.
Si sta ridefinendo il rapporto. Quando si verificano i fallimenti del mercato lo Stato deve intervenire ed il mercato mostra i suoi limiti. Sta finendo la storia iniziata agli inizi degli anni Ottanta con l’esaltazione acritica di quest’ultimo. Siamo arrivati addirittura ai “neoliberisti progressisti” di sinistra negli anni Novanta. L’ enfasi della crescita spinta dal solo libero mercato trovava pochi oppositori ispirati dal pensiero economico di Keynes. La stessa Unione europea, ancorata all’ ordoliberalismo tedesco, si concentrava su riforme e disciplina fiscale per permettere alle forze del mercato di operare liberamente. Di fronte agli shock finanziari degli anni Duemila, la mano pubblica è dovuta intervenire per evitare il peggio. I mercati da soli non erano in grado di riassorbire le gravi conseguenze su imprese, lavoratori, famiglie. Il potere dello Stato si è manifestato con divieti e prescrizioni, incentivi e facilitazioni. Il problema è oggi come conciliare questi con il consenso elettorale nel contesto di democrazie rappresentative. Se l’intervento statale è necessario, non dobbiamo tuttavia trascurare i rischi. Ormai è evidente: non si possono finanziare i grandi beni pubblici europei senza una capacità fiscale europea.
Sul piano teorico il pensiero neo- keynesiano ha dimostrato l’endemica instabilità del capitalismo di matrice finanziaria, l’incapacità del monetarismo di fronteggiarla, la conseguente necessità di regolamentare il mercato. Il problema è come intervenire. Si delinea uno Stato come stratega dello sviluppo se ha autonomia nel portare avanti obiettivi di medio-lungo periodo rispetto alle lobbies più potenti e se è capace di costruire alleanze con alcuni gruppi sociali, industriali in particolare, per una strategia di modernizzazione del Paese. Serve allora accompagnare innovazioni economiche dal basso, come nel capitalismo cinese e ri- regolare il capitalismo conciliando crescita e welfare nel ridurre le disuguaglianze, come nei Paesi scandinavi.
Va irrobustito il radicamento dello Stato nella società costruendo infrastrutture sociali negoziali con una politica aperta e riflessiva. I Governi ormai non si limitano a dare “spintarelle” ma agiscono da ” motori primi” delle innovazioni. Si muovono in una ” globalizzazione selettiva” che va a sostituirsi alla trascorsa iperglobalizzazione. Dall’ economia civile e sociale arriva allo stesso capitalismo la richiesta di interrogarsi sulla sua responsabilità etica, rispetto alla dignità dell’uomo e alla tutela dell’ambiente. È evidente che oggi serve un nuovo modello di sviluppo sostenibile. Le innovazioni e le nuove tecnologie rappresentano un processo strategicamente articolato e governato. Le imprese a controllo pubblico sono fondamentali nel campo energetico, tecnologico e militare.
Come si pongono gli Stati nella competizione tecnologica? Uno dei banchi di prova sarà la sfida dei semiconduttori e delle batterie nella transizione ecologica per ragioni di sicurezza nazionale. La transizione energetica non sarà senza costi. L’Europa ha capito pertanto che per conciliare crescita e sostenibilità deve azionare la mano pubblica. Dopo il 2008 la spesa pubblica ha svolto così una funzione significativa nell’ assicurare la ripresa. Qualche Autore parla ormai di uno Stato neo- keynesiano.
In conclusione, il pensiero davvero nuovo di Mariana Mazzucato. Una economista che ha dimostrato che nei Paesi capitalisti avanzati, il successo del mercato è stato determinato in modo importante da consistenti forme di intervento pubblico nel sistema nazionale di innovazione. Docente allo University College di Londra, dove ha fondato e dirige l’Institute for Innovation and Public Purpose, con il libro Lo Stato innovatore. Sfatare il mito del pubblico contro il privato, Laterza 2014, ha raggiunto il grande pubblico. “Ecco, su questo punto le cose sono cambiate. Con la pandemia, l’Europa ha approvato un piano di ripresa condizionato agli investimenti, non all’ austerità…Ma c’è una cosa che non è cambiata: c’è ancora l’idea che lo Stato non debba avere una sua capacità d’azione e che debba investire molto di più nella formazione dei suoi funzionari…Il mio messaggio infatti non è mai stato ” Stato largo” vs ” Stato minimo”. Non ho mai pensato che la soluzione sia spendere soldi a pioggia. Piuttosto, il mio messaggio è che dobbiamo trasformare lo Stato stesso in una forza imprenditoriale… Con la crisi climatica, ci serve uno Stato che spenda in modo intelligente, oltre che con molti fondi……se lo Stato si limita a correggere fa troppo poco e troppo tardi.” (Il Mulino, n. 2/23, p.125 ss.).
Silvio Minnetti