Se “la salute” – bene costituzionalmente rilevante – non è solo uno “stato oggettivo” di assenza di malattia, ma è un costrutto complesso che dà origine ad un percezione soggettiva di benessere bio-psico-sociale, iscritta in una dimensione di senso condivisa a livello sociale, l’organizzazione di un sistema sanitario pubblico va resa essere isomorfa all’obiettivo da raggiungere che è anche la sua ragione d’essere: se il SSN non persegue la salute dei cittadini, intesa come sopra descritta, cosa esiste a fare?
Se l’assunto è vero, esiste di conseguenza una sostanziale e insanabile differenza tra un sistema sanitario pubblico che deve garantire un diritto costituzionale e i servizi e le organizzazioni sanitarie imperniate su logiche assicurative.
Queste ultime, a fronte di un prezzo di polizza stipulato ex ante, assicurano il cittadino garantendogli la possibilità di avere a disposizione una serie di beni, servizi o prestazioni utili a curare uno stato di malattia, affinché possa in autonomia perseguire lo stato di salute per lui soddisfacente: in una società liberista e capitalistica, il livello di estensione della copertura assicurativa, ossia quale rischio il cittadino vuole assumersi in proprio e a quali risorse personali decide di rinunciare per avere servizi di cura per mantenere la sua vita al riparo dalle malattie, uno dei fattori del suo benessere, è una scelta che spetta al singolo cittadino.
E’ stata questa la natura ideologica dello scontro politico alla base dell’”Obama care” circa il diritto o meno di uno Stato di intrudere nelle scelte personali del cittadino: il sistema liberale americano, da sempre, porta lo Stato a tollerare la ineluttabilità dell’esistenza di cittadini poveri e ai margini della società, perché nel pensiero capitalistico ortodosso, chi è ai margini del contesto sociale è sostanzialmente visto come un “perdente” all’interno della naturale competizione per la sopravvivenza, quasi una sorta di “danno collaterale” in una guerra ineludibile per la sopravvivenza, dove è giusto che vinca il “più forte” (il famoso aforisma di Hobbes: Homo homini lupus), purché la battaglia non sia combattuta con mezzi sleali: etica capitalista, di lontane radici calviniste.
Un servizio sanitario pubblico parte da un concetto totalmente differente, perché non si tratta di assicurare un cittadino contro un rischio, ma di garantire la possibilità a tutti di essere in salute: obiettivo indubbiamente più evoluto sul piano concettuale e antropologico, non perseguibile applicando regole organizzative idonee al mercato assicurativo, ma non scevro da pericolose derive illiberali.
Se la salute è uno stato multifattoriale di benessere soggettivo, validato da un ragionevole consenso sociale, il rischio di uno Stato che, in nome del bene da garantire, stabilisca e definisca – de iure – le componenti multifattoriali che definiscono il concetto di salute è un pericolo molto concreto.
E’ lo Stato Etico che in nome del bene di tutti cerca di imporre comportamenti finalizzati al benessere, definendo quali siano i livelli di assistenza e di comportamenti accettabili: e in una fase di complessa crisi economica, il rischio molto concreto è quello di stabilire a priori – in virtù di norme , circolari o protocolli – cosa può essere messo a disposizione e cosa no, chi ha diritto di priorità nelle cure e, in futuro, anche controllare i comportamenti dei singoli, per dissuaderli o addirittura sanzionarli nel caso non siano adeguati rispetto ad uno standard di benessere, “scientificamente validato”: e con la pandemia qualche avvisaglia di quanto potrebbe succedere a breve, abbiamo avuto modo di poterla osservare.
Questa deriva è tanto più subdolamente pericolosa quanto più trova linfa dalla cogente necessità di far fronte alla questione della sostenibilità economica: ciò che giustifica le scelte non è più ciò che è giusto fare per la salute (assunto che scatenerebbe – in Italia poi!- una ridda di discussioni e contestazioni: cos’è la verità?), ma ciò che è economicamente sostenibile. Se poi ciò che è sostenibile è determinato dai Mercati (entità misteriosa di cui si vedono solo gli effetti), il cerchio della cogente ineluttabilità si chiude: ciò di cui un cittadino ha bisogno per stare in salute lo stabilisce il servizio sanitario pubblico sulla base della conoscenze scientifiche all’interno di ciò che è compatibile economicamente.
E’ la strada su cui siamo incamminati.
E come perseguire questo schema? Attraverso una organizzazione aziendale della sanità: chi meglio di una azienda sa organizzarsi in efficienza per ottenere prodotti di qualità?
Ma se azienda deve essere, ci vogliono i manager alla tolda di comando, con pieni poteri decisionali: e poiché una azienda sanitaria (ospedaliera o meno) è una entità molto complessa da governare, al direttore generale sono stati affiancate altre figure dirigenziali, a lui subordinate e da lui scelte (che poi le scelte sono condizionate dalla politica è una deviazione che non intacca il principio costitutivo), con due sostanziali vincoli da rispettare: la qualità dei servizi prodotti, assurta a proxy dello stato di benessere (se è il servizio o prodotto offerto è di qualità, il benessere non può che essere garantito: assioma sostanzialmente sbagliato se applicato al concetto di salute, ma assunto a verità indiscutibile ), e l’equilibrio dei conti economici da garantire: in fondo una azienda profit di servizi ha le stesse logiche, una volta sostituita la sostenibilità con la “remunerazione del capitale”
In una dimensione multifattoriale e soggettiva, la pretesa di oggettivare la qualità di un servizio con una elevata componente “immateriale” (la cura), è un errore metodologico grave: e infatti la qualità è diventata rapidamente “qualità procedurale” e non poteva essere diversamente: è stupefacente vedere come si è imposta senza particolari obiezioni una simile distorsione innaturale del concetto di qualità in sanità, una volta imposto che la salute è un “bene” ottenibile acquistando prodotti e servizi, nel quasi mercato della salute.
L’altro elemento strutturale che dà il confine all’agire delle aziende sanitarie è il perimetro economico: ma, essendo poco più che formalistico e procedurale il concetto di qualità, essendo indeterminato il concetto di “salute”, l’unico vero regolatore delle azioni dei Direttori Generali è diventato il vincolo economico: Il Servizio Sanitario Nazionale finisce così con il regolare in maniera “aziendale” l’erogazione del fattore “cura delle malattie”, in base ai vincoli economici dati a priori, all’interno di una qualità sostanzialmente procedurale, vincolato alle evidenze scientifiche, che finiscono per invadere anche la sfera soggettiva del concetto complessivo di salute, visto che gli altri fattori che concorrono al raggiungimento dello stato di salute sono quasi completamente non presidiati.
Tanto più il sistema è disordinato e poco strutturato nella sua organizzazione sociale, tanto più il cittadino si “arrangia” come può a cercare di perseguire il suo stato di salute ( “ben-essere” bio-psico-sociale), tanto più una società tende a migliorare e a rendere “stringente” la sua organizzazione, tanto minori sono gli spazi di “anarchia” per il cittadino, maggiore è il rischio che la salute diventi uno stato parametrizzato a priori aumentando il disagio personale e sociale: ed è quello sperimentato con crescente insofferenza da molti cittadini, con un curioso paradosso che la percezione di benessere diminuisce all’aumentare della strutturazione organizzativa del SSN, se non si definiscono bene i limiti di intervento dello Stato.
Se abbiamo quindi chiaro che
- la salute è un concetto multifattoriale dove la cura della malattia è uno dei fattori, ma non l’unico
- non può esistere un concetto di salute costituito da fattori identici per tutti, da imporre con norme cogenti e standard (solo nei sistemi totalitari si pensa che la psiche e i contesti sociali siano “variabili dipendenti” determinate dalle scelte dello Stato)
la “governance” di un SSN deve essere coerente e rispettoso con quanto si deve perseguire.
Due i postulati irrinunciabili: il sistema sanitario può essere solo compiutamente socio-sanitario e a copertura universale. Se il fine fosse solo la cura della malattia, molto più logico un sistema assicurativo, perché più coerente e trasparente nelle sue articolazioni organizzative e gestionali,
Un sistema socio-sanitario a copertura universale ha due obiettivi assolutamente simmetrici da perseguire:
- La cura delle malattie
- la presa in carico socio-sanitaria finalizzata al perseguimento della migliore qualità della vita possibile anche nelle persone fragili, ossia di tutti coloro che per cause biologiche e organiche di malattia non sono in condizione di essere compiutamente autonome nella loro vita quotidiana, transitoriamente o quoad vitam.
I due obiettivi continuamente interagenti tra loro – pur con livelli di intensità variabile – devono essere perseguiti con due modelli organizzativi necessariamente differenti , governati però unitariamente:
- la cura deve essere ricondotta a sistemi di performance che – pur con grandi rischi di degenerazione – cercano di tenere in equilibrio il risultato – ossia l’efficacia – con i costi – ossia l’efficienza
- la valutazione della presa in carico socio-sanitaria va incardinata in un sistema multifattoriale complesso dove tenere conto del giudizio individuale del soggetto fragile, il giudizio del contesto di prossimità (l’uomo non vive mai da solo) e del contesto sociale di comunità e lo stato oggettivo di cura: non può esserci una valutazione di efficienza di utilizzo delle risorse disgiunta dai contesti: i costi possono variare molto anche a parità di efficacia in realtà sociali differenti..
Dato il ragionamento fin qui svolto, ne consegue che l’impianto delle leggi 502 e 517 sia sostanzialmente sbagliato: e la legge 229 del 1999 non ha corretto a sufficienza lo storture concettuali alla base delle leggi di riforma citate.
La riforma del titolo V con la devoluzione alle regioni di molte competenze sanitarie, ha involontariamente contribuito a peggiorare ulteriormente il sistema, nonostante il principio della devoluzione fosse teoricamente molto giusto: le Regioni hanno infatti replicato – con poche varianti e non sostanziali – il modello erroneo pseudo-assicurativo alla base della riforma, tesa alla costituzione di aziende produttrici di beni e servizi in un sistema di pseudo-mercato misto e per giunta maldestramente regolato, immaginando che il perseguimento del mandato costituzionale di tutela della salute potesse essere perseguito solo attraverso un “efficientamento” del “governo aziendale” da rendere sempre più forte e centralizzato, dove inevitabilmente solo il fattore “cura” – l’unico normato e definito da regole economiche– ha assunto un ruolo nettamente prevalente: guarda caso con strette analogie con il sistema assicurativo americano.
Un gran pasticcio.
In un sistema democratico, le riforme possono essere solo graduali : la prima azione fondamentale da mettere in atto per riportare il servizio sanitario a fare ciò che prevede la Costituzione, è quella di riformare il sistema di governance.
Le aziende sanitarie NON POSSONO essere governate da un Direttore Generale unico, progettato sostanzialmente come “deus ex machina” della azienda erogatrice di servizi, e reso simultaneamente “vassallo” delle Direzioni Generali Regionali, organi di governo tecnocratici, fatalmente preda di possibili degenerazioni politiche e partitocratiche: minore è la partecipazione civile, maggiore i rischi di degenerazione del sistema
Le Aziende Sanitarie devono contenere al loro interno sia il fattore della “Cura” – ospedalità e medicina specialistica – che il fattore della “presa in carico”, con sistemi di finanziamento – almeno all’inizio – non permeabili e con indicatori di performance isomorfi agli obiettivi da raggiungere e quindi molto diversificati tra di loro: per ridurre nel tempo la corsa al mercato dei servizi tecnologici ospedalocentrici, come prima azione va rafforzato il sistema socio-sanitario territoriale, sviluppando modelli di servizio di tipo partecipativo e generativo, completamente sganciati dalla logica di produzione di prestazioni.
Il Direttore Generale, che può essere scelto da un albo nazionale di idonei (e ci vorrebbe una scuola di formazione ad hoc che non può essere solo quella data dalle facoltà economiche: le risorse sono un pezzo della questione non il tutto!), deve rispondere ad un Consiglio di Amministrazione – snello (non le vecchie unità sociosanitarie locali) – che è garante degli obiettivi generali da perseguire e del bilancio e deve avere al suo interno le principali rappresentanze tecniche e territoriali (enti locali – università e tessuto produttivo del territorio- rappresentanti della società civile organizzata) perché la salute è interesse di tutto un territorio. La Regione regola le cornice organizzativa generale e gli obiettivi di salute da perseguire, anche differenziati nei diversi territori per correggere gli squilibri eventualmente presenti, e distribuisce coerentemente le risorse statali ricevute, all’interno di una cornice generale legislativa nazionale che stabilisce i livelli essenziali da garantire a tutti i cittadini e le linee pluriennali progettuali di indirizzo.
Concorrono al raggiungimento degli obiettivi, tutti i soggetti pubblici e privati all’interno di regole di sistema e economiche trasparenti: programmazione per aree geografiche omogenee nei servizi di cura con un mix di attività ad elevata competitività nelle attività specialistiche ad elevata tecnologia (di solito più remunerative) e con maggiore copertura pubblica per le attività di cura più complesse o meno frequenti. Devoluzione con affidamento di settori di intervento e trasferimento di responsabilità nelle attività di presa in carico socio sanitaria della cronicità e delle attività per le fragilità con piena parificazione tra strutture statali e del terzo settore. Ai territori la possibilità di reperire e devolvere risorse aggiuntive – pubbliche e private – agli ambiti legati alla presa in carico socio-sanitaria, fino a riequilibrio tra la componente della cura e quella della presa in carico.
Massimo Molteni
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