Viviamo in un mondo plurale. Superata la stagione della “guerra fredda”, del duopolio USA-URSS e della deterrenza nucleare, le aree di influenza che si addensano attorno a paesi-leader delle rispettive aree continentali sono andate moltiplicandosi.
Si tratta di un processo tuttora in corso, che vede confini incerti o contesi, cosicché non si può parlare di equilibri internazionali se non nelle forme di una sorta di bradisismo permanente. In corso di assestamento? Tutt’altro ed, in ogni caso, anche guardando ad una prospettiva di medio-lungo termine, è difficile dirlo, difficile prevedere i tempi di un approdo, di una stabilizzazione, ammesso che sia possibile o non si debba piuttosto ammettere di dover vivere in un contesto internazionale perennemente scosso.
Il tradizionale asse Est-Ovest incrocia una dinamica Nord-Sud che assegna un ruolo di primo piano, sulla scena mondiale, a paesi che non si possono più qualificare genericamente “in via di sviluppo”. Peraltro, le diseguaglianze sono tuttora enormi e addirittura si accrescono, sono sempre più avvilenti ed inaccettabili, sempre più fonte, in molte aree post-coloniali e non, di rancore, di sospetto e di sorda avversione nei confronti di un Occidente visto come storico usurpatore di risorse altrui che tuttora depreda.
A queste mappe se ne sovrappone un’altra che distingue democrazie ed autocrazie, sostanzialmente regimi illiberali o espressamente dittatoriali. Questi ultimi sembrerebbero avere, rispetto alle democrazie, maggiore attitudine nel domare e governare il demone della complessità che sfida ogni regime ed ogni ordinamento, nella misura in cui è sostenuto da fenomeni che, si potrebbe dire, appartengono alla sfera dei processi “non lineari”, tendenti al caos. Del resto, la competizione internazionale ha assunto forme nuove e, accanto ai versanti militare e commerciale, si incardina soprattutto sul piano scientifico e tecnologico, dunque assecondando un potere che rischia di crescere su sé stesso, incessantemente, imponendo una logica talmente stringente da risultare ineluttabile, al di là di ogni nostro intendimento.
Un’altra chiave di lettura è rappresentata dal dato demografico che, tra le altre cose, segnala il grado di fiducia che un popolo ha nei confronti di sé stesso, il livello delle speranze su cui proietta le attese del suo domani. In altri termini, paesi giovani si contrappongono a paesi vecchi e stanchi e tra questi vanno annoverati i paesi europei che sembrano appesantiti e frenati dalla loro storia plurimillenaria, da cui, al contrario, dovrebbero trarre motivazioni e slancio e strumenti necessari ad orientare gli sviluppi della convivenza planetaria.
L’Europa dovrebbe concepire sé stessa, come sostiene Romano Guardini, ricorrendo al senso aristotelico del termine, come una “entelechia”, cioè un’ entità che coincide e si identifica con il proprio destino, cioè in sé orientata, destinata dalle sue origini, dalla storia, dalla cultura, dalla spiritualità che ha sviluppato nella sua millenaria vicenda ad essere un punto di riferimento, un faro di civiltà e di pace.
La questione ambientale, la drammatica rottura di fondamentali equilibri naturali costituisce un altro versante di conflitto tra paesi che aspirano ad una crescita del loro tenore di vita che avvicini, quanto più possibile, quegli standard di consumo – anzitutto energetico – che hanno garantito il benessere dei paesi occidentali.
Le migrazioni sono strutturali perché si inseriscono in questo quadro e, se fossimo in grado di comprenderne l’effettiva natura, anziché viverli in maniera ostile come, fenomeni minacciosi ed aggressivi, dovremmo interpretarli e, dunque, farcene carico in quanto occasione privilegiata di dialogo e di comunicazione attiva tra mondi che rischiano, altrimenti, di essere conclusivamente antitetici.
In un tale contesto, in cui davvero tutto si tiene, cosicché un certo fenomeno incide su tutti gli altri e ne altera, in modo spesso impredicibile, gli ulteriori sviluppi, la stessa competizione per il primato planetario tra Stati Uniti e Cina assume un significato relativo.
In tale quadro, l’ Occidente, in molti ambienti, appare smarrito, insicuro, intimorito, dubbioso circa il suo ruolo, guarda a sé stesso con un atteggiamento critico che è, ad un tempo, la sua forza, l’ indice di una consapevolezza che gli fa onore, ma anche la sua debolezza, a meno che sappia costruire un giusto equilibrio tra questi sentimenti contrastanti.
Domenico Galbiati