Anna Maria Bigon – la consigliere regionale veneta del PD che, con la sua astensione determinante, ha impedito che venisse approdata la legge sul “fine vita”, sostenuta dal governatore Zaia – ha, per quel poco che conta, ma convintamente, la nostra intera solidarietà. Ed il nostro apprezzamento.

Per il merito della posizione assunta, per la fermezza con cui ha difeso la sua libertà di coscienza, resistendo, a quanto pare, alle ripetute pressioni che ha dovuto subire, anzitutto dai suoi compagni di partito, per il coraggio di esporsi consapevolmente alla gogna mediatica cui, sempre i suoi compagni, la stanno condannando. Arrivando, da parte di qualcuno – sempre che ciò che riporta la stampa corrisponda al vero – a sostenere che è stato un errore lasciare libertà di coscienza ed invocando i valori della modernità e del progresso contro l’oscurantismo ideologico della cattolica Bigon.

In fondo, è sorprendente, perfino per chi dal PD non ha mai sperato nulla, questa ulteriore ed ultima involuzione “leninista” di una forza politica che pone la disciplina di partito davanti alla coscienza personale. Non è bastata la sua evidente e progressiva involuzione radicale – che precede, per la verità, la segreteria Schlein – a dar conto di un deragliamento da quella cultura solidale che avrebbe dovuto, nelle intenzioni originarie, rappresentare la cifra di una aggregazione in cui confluivano le culture “popolari” della prima repubblica.

Almeno per una volta – e va riconosciuto che è successo anche nella rappresentanza consiliare leghista – un tema di forte valenza etica ha scosso la cristallizzazione di posizioni politiche schiacciate nella tenaglia della contrapposizione bipolare.

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