In una nota della Conferenza episcopale, in occasione della discussione in Parlamento del progetto governativo di autonomia differenziata, viene affermato: “Siamo convinti – e la storia lo conferma – che il principio di sussidiarietà sia inseparabile da quello della solidarietà. Ogni volta che si scindono si impoverisce il tessuto sociale, o perché si promuovono singole realtà senza chiedere loro di impegnarsi per il bene comune, o perché si rischia di accentrare tutto a livello statale senza valorizzare le competenze dei singoli. Solidarietà e sussidiarietà devono camminare assieme altrimenti si crea un vuoto impossibile da colmare”.

Non entro in merito al discusso testo governativo poiché ciò richiederebbe un ampio spazio per affrontare i temi del decentramento, dell’autonomia e della sburocratizzazione, mentre sento la necessità di approfondire la relazione fra sussidiarietà e solidarietà.

Parto dalla definizione di solidarietà. “Solidarietà, in senso ampio, su un piano etico e sociale, è il rapporto di fratellanza e di reciproco sostegno che collega i singoli componenti di una collettività nel sentimento appunto di questa loro appartenenza a una società medesima e nella coscienza dei comuni interessi e delle comuni finalità.” (Dizionario enciclopedico italiano Treccani)

Presupposti della solidarietà sono l’appartenenza a una collettività e la coscienza di comuni interessi e finalità. Il riferimento può essere l’umanità intera, la nazione, le realtà locali e/o comunità di varia natura. Tuttavia, pare ovvio che l’impegno solidale risenta della forza dei legami che danno consistenza alle varie appartenenze, come rilevò Giacomo Leopardi quando scrisse: “Quanto piú l’amor di corpo guadagna in estensione tanto perde in intensità ed efficacia”. Ad esempio, in un mondo in cui eventi distruttivi sono frequenti, abbiamo visto che la solidarietà della gente (raccolta di fondi, diretto intervento nei soccorsi, accoglienza dei sinistrati, ecc.) è tanto maggiore quanto più prossimi sono i luoghi delle calamità e conosciute le comunità coinvolte.

Un altro aspetto della solidarietà che va evidenziato è il suo carattere spontaneo, nascente direttamente dai sentimenti della gente comune. Non esiste una solidarietà imposta dall’alto. Ogni politica che metta in campo provvedimenti in nome della solidarietà fa un uso improprio di tale termine se detti provvedimenti non sono condivisi da coloro a cui si chiede di impegnarsi o su cui ricadono gli oneri.

Il principio di sussidiarietà, è il principio secondo il quale, se un ente inferiore è capace di svolgere bene un compito, l’ente superiore non deve intervenire, ma può eventualmente sostenerne l’azione. È un principio elaborato dalla dottrina della Chiesa. Il Catechismo (al punto 1883) così si esprime: “Una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità e aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune”.

Le “società di ordine inferiore” di cui si parla nella definizione sono sul piano politico e amministrativo gli Enti locali (Regioni, Province, Comuni), oppure, ove si realizzasse una Federazione europea, saranno le nazioni partecipi al progetto. Ritengo che, in un senso più generale (che va al di là della dimensione politica e amministrativa) possano esservi comprese comunità tradizionali e/o di nuova tipologia, associazioni e/o gruppi di persone impegnate in azioni per loro vitali (ad esempio, lavoratori che si battono a sostegno del posto di lavoro, oppure comitati di cittadini che si mobilitano in difesa del proprio territorio).

Ora, ritorno alla relazione esistente tra solidarietà e sussidiarietà, e all’eventuale gerarchia tra di esse.

Ho più volte sentito critiche di varia natura nei confronti della sussidiarietà. Viene detto che è di ostacolo alla concorrenza e quindi danneggia l’economia; minaccia l’unità nazionale perché incentiva la frammentazione territoriale; può condurre a forme di egoismo in contrasto con la solidarietà. In rapporto a quest’ultima osservazione, è opinione di molti che, tra i due riferimenti, la solidarietà debba essere sempre privilegiata, in quanto rivolta alla tutela di ogni persona, e che la sussidiarietà sia quindi giustificata solo se si pone al suo servizio.

Si tratta di un punto di vista più che rispettabile, tuttavia affermare che la solidarietà debba sempre prevalere sulla sussidiarietà implica che ci sia qualche potere (politico o di altra natura) intenzionato a imporre il primato della prima sulla seconda. Ma la solidarietà non può essere imposta da una autorità in quanto è tale solo se spontanea, se viene dal basso. Pertanto mi pare più produttivo cercare di capire quali fattori facilitino il suo nascere e/o la sua affermazione, ed è su questo terreno che si ripropone il rapporto con la sussidiarietà.

È evidente che il livello di impegno solidale sia massimo nei confronti di chi fa parte della propria comunità (una comunità a corto raggio), e sia ancora elevato in realtà tenute insieme da una lingua, una cultura e modi di vita comuni, mentre vada riducendosi man mano che si proceda verso una dimensione più ampia, più lontana e meno definita.

Paul Collier (uno dei maggiori esperti in materia di povertà e migrazioni) ha evidenziato che un forte sentimento di identità nazionale (non fondata sui soli aspetti giuridici) è indispensabile non soltanto per tenere insieme un Paese, ma per mantenere la solidarietà, la reciproca fiducia e la propensione alla redistribuzione della ricchezza mediante imposte condivise; in sintesi per salvaguardare il capitale sociale.

Robert Putnam, docente di sociologia di Harvard, ha rilevato che negli Stati Uniti risultano maggiormente capaci di comportamenti responsabili improntati a civismo e a solidarietà le comunità più omogenee sul piano etnico e culturale, mentre, nelle aree più disomogenee, in cui vivono cittadini diversi per etnia e religione, viene meno la reciproca fiducia e la partecipazione alla vita sociale.

Anche Alberto Alesina (già professore di Harvard), nei suoi ultimi lavori, ha mostrato che una maggiore eterogeneità culturale, all’interno di un Paese, riduce il consenso popolare alle politiche redistributive e all’impiego di denaro pubblico a sostegno di politiche di interesse collettivo.

Jeremy Rifkin ha scritto che, se le attività degli esseri umani non sono più collegate a un territorio di appartenenza, diventa impossibile conservare il concetto di solidarietà collettiva e quello di lealtà a un Paese, requisiti fondamentali per la sopravvivenza del senso di coesione nazionale e sociale.

Sono osservazioni che fanno intravedere un collegamento stretto tra la solidarietà e l’esistenza di comunità caratterizzate da una qual certa omogeneità culturale o comunque ancorate a un territorio.

Marco Revelli (in Poveri noi) giudica negativamente la comunità ritenendo che soffochi la libertà individuale (il noi comprime l’io) e nel contempo ci contrappone agli “altri”, sempre visti come potenziali fonti di pericolo. Include in questo disegno, ritenuto “reazionario”, anche l’esaltazione del principio di sussidiarietà e le politiche compassionevoli intessute di personalismo messe in campo da parte di un certo mondo cattolico, per il quale i diritti sociali vengono retrocessi a funzioni morali. Revelli contrappone i diritti, che sono universali, frutto di conquiste, alle risposte selettive e personalizzate proprie del comunitarismo.

Tuttavia, i diritti restano qualche cosa di astratto se non si riconosce che a reggerli ci devono essere i doveri e l’impegno alimentati da un sentimento solidale di quanti fanno parte di una comunità.

Scrive Zygmunt Bauman che la comunità – basata sui rapporti interpersonali, sul contatto diretto, sulla vicinanza fisica e morale – è in ritirata nella società globale ma sopravvive nella dimensione locale, nell’ambito in cui si è nati, si è stati educati e in cui si mantengono i legami forti, gli affetti, la cultura condivisa. La società (strutturata su relazioni a distanza che si instaurano tra gli individui e tra singoli e organizzazione pubblica) diventa sempre più vasta e tende a identificarsi con il mondo intero, ma per questo appare incontrollabile e pertanto sconosciuta; resta lontana da noi, ci rende spaesati e incerti, e causa insicurezza. La comunità è sempre presente, ci fa sentire sicuri e non ci abbandona; tuttavia essa è esigente: ci impone obbedienza, ci controlla, ci osserva, ci sanziona. La società invece ci rende liberi, ma la società senza comunità sarebbe una realtà dura e disumana.

Se, come è stato detto, la solidarietà si regge sull’esistenza delle comunità, bisogna riconoscere che la sussidiarietà, alimentando la permanenza di queste, favorisce il sorgere e il mantenimento dei comportamenti solidali.

Ma, come ha detto Revelli, e come pensano molti anche in ambito cattolico, la comunità ci contrappone agli “altri”. Tuttavia, se la comunità è garanzia di solidarietà per chi ne fa parte, non è inattiva nei confronti di chi ne sta fuori; in particolare una comunità può manifestare solidarietà verso le altre comunità, anche perché oggi, a fronte di problematiche e talora minacce che riguardano l’umanità intera, ci sentiamo tutti sulla stessa barca.

Invece, in un mondo in cui “io” è l’unico concetto che si impone, il cosmopolitismo, a cui guardano coloro che privilegiano astrattamente i diritti (sempre dei singoli soggetti), è l’altra faccia dell’individualismo. Entrambi non sono un terreno fertile per la solidarietà.

Giuseppe Ladetto

 

Pubblicato su www.associazionepopolari.it

About Author