All’invito di Socrate – “Conosci te stesso” – Freud risponde che: “L’ Io non è padrone in casa sua”.

L’educazione delle giovani generazioni – e, dunque, la scuola, in tutt’uno con la famiglia – ha molto a che vedere con questo crocicchio, che sembrerebbe adombrare una insolubile contraddizione e, invece, sostanzialmente evoca un cammino che, per quanto scosceso, non è impraticabile.
Neppure ai nostri giorni che pure lo rendono meno scontato, meno lineare, spesso tormentato.

Un tragitto che società come la nostra non semplificano, anzi rendono più arduo di quanto già non sia di per sé. Le giovani generazioni – al di là dell’impronta libertaria e disincantata dei giorni nostri, infine più apparente che reale – sbattono contro un muro di gomma di riti e di mode, di convenzioni e di luoghi comuni, di consuetudini e di precetti, di stili di vita e di abiti mentali, insomma di “pre-giudizi”, nel senso letterale del termine, che cercano di omologarli a costumi e comportamenti funzionali all’ordine dei criteri e dei valori in uso, consolidati e protetti da possibili sommovimenti che mettano in discussione le comode certezze dei più .
Sono costretti a vivere sopra la soglia.

Quando le afferenze sensoriali superano un certo livello di intensità – ad esempio, sul piano fisico può succedere in patologie che provocano un prurito diffuso e persistente – compare una sofferenza, talvolta un dolore, non sopportabile. Succede la stessa cosa sul piano psicologico e mentale.

Sono soprattutto i giovani a patire questa condizione che sparpaglia attorno emozioni, sentimenti, speranze ed illusioni, stati d’animo difficili da comporre nel mosaico almeno di una prima figura dotata di senso. Manca un attrattore, un momento di raccordo e di prima sintesi attorno a cui coagulare esperienze che, lasciate alla loro singolarità, tutt’al più suscitano domande, ma non danno risposte.

C’è un analgesico che può attutire questa condizione, se non altro di disagio. Consiste nel diventare permeabilità. Vuol dire, piuttosto che vivere, essere vissuti da un flusso ininterrotto di stimoli e sollecitazioni da cui lasciarsi attraversare, senza resistervi, quasi da spettatori di una messinscena che si fa da sé.

Tutto ciò per giungere a dire che, di fronte ai giovani, prima di condannare bisogna comprendere e mettere in conto i graffi, le contusioni, spesso le ferite e le lacerazioni che il nostro mondo “per bene” fa ricadere sulle loro vite incipienti.

È giusto punire, quand’è necessario, purché la punizione non appaia come un castigo, una umiliazione gratuita, un che di sprezzante, un giudizio ultimativo ed irrevocabile, ma venga, si potrebbe dire, offerta come una pausa di riflessione, come un invito a guardarsi dentro, in quella dimensione interiore da cui può nascere quel ravvedimento che nessuna tegola scagliata dal Ministro Valditara riesce, di per sé ad ottenere.

Domenico Galbiati 

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