Tira una brutta aria per le riforme costituzionali. Perché per fare delle riforme costituzionali serve uno spirito costituente. Che non c’è, semplicemente. In che cosa consiste lo “spirito costituente”?
Esso consta di quattro passaggi concatenati:
a) la consapevolezza di massa che il sistema politico-istituzionale fin qui vigente non è più adeguato rispetto alle nuove sfide, che la storia ci mette dinnanzi;
b) la volontà di tutti i soggetti sociali, civili, culturali e politici di costruire un nuovo assetto;
c) il confronto tra nuovi modelli;
d) l’adozione finale di un nuovo modello.
Se il primo passaggio non si compie, se la coscienza civile e politica del Paese dell’inadeguatezza istituzionale non è così acuta e ultimativa, il passaggio agli stadi successivi si blocca.
Da decenni corrono fiumi di lamenti sul malfunzionamento del sistema politico, sull’instabilità, breve durata e debolezza dei governi, sulla giustizia ingiusta, sul sistema amministrativo, ma non c’è stato il passaggio.
Dalla lunga accumulazione di lamenti non è mai nata una volontà efficace. I punti più alti di mobilitazione sono stati i referendum del 1991 e quello del 1993. Sono state abbozzate delle risposte, sia in termini di riforma della legge elettorale sia in termini di nuovi assetti istituzionali.
La loro storia fallimentare è troppo nota per rievocarla per l’ennesima volta. Un dato è evidentissimo: i partiti non hanno mai dimostrato, in questi decenni, nessuna volontà e spirito costituente.
Chi stava al governo si dimostrava più disponibile, chi si trovava all’opposizione del tutto indisponibile. Poiché il nostro è un regime democratico, in cui si pratica l’alternanza, più o meno obtorto collo, ogni riforma è stata resa alternativamente impossibile dalle opposizioni di turno.
Il leit motiv è sempre stato lo stesso: la riforma costituzionale mette a rischio la democrazia, ci riconsegna all’Uomo forte. Il rischio sempre denunciato da ogni retorica è quello di un governo forte. La difesa di ogni particolarismo corporativo viene spacciata per difesa eroica della democrazia.
Ogni singolo cittadino è attraversato da una contraddizione: in quanto cittadino “universale” è interessato al Bene comune e, pertanto, ad un sistema decisionale, nel quale il Bene comune sia protetto nella giungla degli interessi; in quanto cittadino “particolare”, radicato nella rete degli interessi particolari, è interessato alla difesa del Bene particolare.
I partiti rappresentano e rendono visibile questa contraddizione, senza scioglierla: quando stanno al governo tendono al bene comune, quando stanno all’opposizione al bene particolare.
Ed è certamente per ciò che il PD-Schlein ha dichiarato che “prima di cambiare la Costituzione occorre attuare quella che c’è”. Era da tempo che non riecheggiavano tali abissali banalità. Così nel giro di qualche decennio la Sinistra è regredita dal “maggioritarismo” elettorale e dal presidenzialismo alla francese al premierato non elettivo, alla sfiducia costruttiva e, infine, al “non si deve toccare nulla”. L’ultima boa cui hanno agganciato la barca è quella della difesa strenua del ruolo attuale del Presidente attuale della Repubblica.
Quanto alla Destra, oggi interessata a durare al governo, ha abbandonato il presidenzialismo confuso della campagna elettorale, è regredita sul premierato elettivo, sul voto di sfiducia costruttiva – da utilizzare ai fini di una tenuta interna della maggioranza – e sull’ipotesi di legge elettorale maggioritaria, da scrivere in Costituzione.
Con un diavolo tutto politico nei dettagli: la questione dell’autonomia differenziata, bandiera di lungo corso della Lega, messa sul piatto a mo’ di contrattazione. Il pacchetto esplosivo sarà consegnato a breve alla Commissione Affari costituzionali della Camera, non senza un passaggio preliminare davanti al Presidente della Repubblica.
I partiti sono uniti da un comune atteggiamento: continuano ad avere paura della volontà dei cittadini-elettori di scegliere direttamente chi li rappresenti e chi li governi. E a chi sollevi la questione viene gettata in faccia l’accusa di populismo. Che pare non valere a livello di elezioni locali e regionali.
Anche un profano, estraneo alle elucubrazioni dei costituzionalisti, è in grado di prevedere che il cammino della riforma costituzionale si presenta ancora una volta molto accidentato: PD e M5S si accingono a lanciare una campagna per la difesa della democrazia e della Repubblica, la stessa che la Destra e parte della Sinistra scatenarono contro il referendum di Renzi del 2016.
Dandosi l’aria di difendere i caposaldi della democrazia, i gruppi dirigenti dei partiti difendono simulacri vuoti di democrazia e opache oligarchie, sfuggenti al controllo democratico dei propri associati e a quello degli elettori.
Al posto di tale controllo, funziona un altro tipo di intermediazione: quella dei mass- e social-media, emanazione di potentati economici e di reti commerciali globali. Il sistema dei partiti galleggia quale corporazione tra le corporazioni in un mare che non è più “nostrum”, chiusi in un micronazionalismo provinciale, la sinistra coprendosi di retorica europeista e la destra essendo autenticamente micro-nazionalista.
Impossibile non vedere una relazione di causa tra un tale sistema politico e il blocco dello sviluppo del Paese, la crescita inarrestabile del debito pubblico, la giustizia civile ingiusta, la trama in espansione di leggi, circolari, regolamenti, burocrazie.
Il principio attivo di responsabilità individuale e collettiva viene soffocato da un sistema che si proclama democratico, ma è solo anarchia corporativa e irresponsabilità burocratica.
È divenuta luogo comune e alibi conservatore l’affermazione che l’ambiente più favorevole per un cambio degli assetti costituzionali è rappresentato da traumi sociali e catastrofi esterni, tali da costringere a cambiare o perire. Se è questo l’argomento clou, basterebbe solo alzare lo sguardo fuori dai confini, verso il vasto mondo. La Prima Repubblica è conclusa.
Ne viviamo i postumi disordinati, senza futuro. I nobili appelli alla tavola dei valori della Costituzione, senza mettere mettere mano alle istituzioni, non ne impediranno il declino. Giacché i valori si incarnano in istituzioni dello Stato. È qui che emerge il deficit di cultura politica del cattolicesimo politico, tutto appello alla persona, alla società civile, alle sue ricorse nascoste. E lo Stato-nazione? Viene regalato al confuso pensiero nazional-conservatore della Destra.
È significativo che nel Glossario del cosiddetto “Piano B”, presentato al Meeting di Rimini, da un gruppo di intellettuali cattolici – come costruire una comunità viva attorno al lessico – manchi proprio il vocabolo “Istituzioni”.
Giovanni Cominelli