E’ successo altre volte che un segretario di partito sedesse a Palazzo Chigi. Quando la politica era una cosa seria si trattava di personaggi di particolare statura, i quali, finché permanevano in questa posizione che veniva considerata sostanzialmente anomala, sapevano, grazie alla loro intelligenza e moralità politica, distinguere comunque tra i due ruoli.
Anche nella Prima Repubblica succedeva che certe tensioni interne alle forze politiche di maggioranza interferissero con l’azione del governo. Ed è stata questa, in numerose occasioni, la causa della breve durata di tanti esecutivi che, però, si sono succeduti mantenendo ferma la barra che orientava la navigazione del Paese, soprattutto sul piano della collocazione internazionale. Un piano, quest’ ultimo, sul quale l’Italia, per quanto irretita e condizionata da una guerra suicida e rovinosamente perduta – e, per di più, grazie alle leggi razziali, moralmente complice del nazismo – ha saputo, con una chiara linea di continuità e di fermezza, ricostruire la propria credibilità ed, anzi, soprattutto, per opera di Aldo Moro, giocare un ruolo di primo piano, in modo particolare nel Mediterraneo e nel rapporto con i Paesi del Medio Oriente.
La centralità del Parlamento rappresentava il cardine del sistema. Il confronto tra maggioranza ed opposizione era aspro, ma leale, misurato sull’effettivo contenuto delle politiche da adottare. Secondo indirizzi che, per quanto potessero essere divergenti, erano, dall’ una e dall’altra parte, concepiti in funzione dell’ interesse generale del Paese.
Il reciproco riconoscimento di questa attitudine fondamentale conferiva alla vita democratica dell’ Italia, in una stagione drammaticamente segnata dalla guerra fredda, la serietà, la ponderazione, la dignità e la sostanziale compostezza di un laboratorio politico avanzato che, ha saputo, sul piano interno, realizzare mediazioni e convergenze, le quali, per molti aspetti, hanno anticipato analoghe evoluzioni di carattere internazionale.
Oggi, tra Palazzo Chigi e la Farnesina, siedono alla guida del governo due segretari (Meloni e Salvini) ed un coordinatore (Tajani) delle forze di maggioranza. Il che evoca una pericolosa sovrapposizione tra ruolo esecutivo, che dovrebbe essere necessariamente orientato all’interesse ed alla rappresentanza dell’Italia complessivamente intesa, e ruolo politico, finalizzato alla particolarità di ciascun partito ed alla sua presenza parlamentare.
Le vicende di questi ultimissimi giorni sono, in proposito patognomoniche, cioè rappresentano, da sole, il sintomo irrefutabile di una diagnosi certa circa l’inettitudine a tenere dignitosamente la scena. E ciò, a parte la statura e la personale cultura politica dei primi due, per l’ oggettiva difficoltà a distinguere un ruolo dall’altro, ammesso e non concesso, che davvero si voglia, eventualmente, sacrificare il secondo al primo ed alla sua ovvia ed indiscutibile priorità.
A tutto ciò, Salvini – a suo confronto il masochismo di Tafazzi era cosa da dilettanti – aggiunge, rivolte a Macron, dichiarazioni decisamente sopra le righe e sufficientemente sgangherate, e scomposte, da non poter non essere apprezzate dal classico “esprit de finesse” dei nostri cugini d’Oltrealpe.