Sollecitato da un recente articolo di Marco Follini (L’andirivieni dei conduttori televisivi), pubblicato su “La Voce del Popolo” e ripreso su questo blog, l’appunto che segue prende le mosse proprio dal teatrino dei trasferimenti e degli addii di alcuni conduttori televisivi, a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi. Sono del parere che c’è una certa affinità tra conduttori televisivi e i nostri attuali leader politici. Molto indicativa di quello che passa il convento dei nostri giorni, tutto in ginocchio di fronte al singolo individuo, di fronte al solitario influencer o solitario leader. Di fronte alle quantità che ormai riducono l’uomo a numeri di mercato. Facciamoci caso. Perché tutto viene ormai giocato sulla faccia e la voce di qualcuna o qualcuno. Forse anche sulle sue posture, le sue invettive e i suoi scatti nervosi.
È da un po’ di tempo che assistiamo al balletto ridicolo, quanto insulso, sull’abbandono, le sostituzioni, i ritorni, nonché la stessa rotazione interna e collocazione oraria, di alcuni noti (o ignoti) conduttori televisivi. C’è sicuramente di mezzo la storica lottizzazione – come scrive Follini – che oggi più gentilmente è definita “spoils system”. Ma forse c’è qualcosa in più che va anche oltre gli aumenti di stipendi, con i salti di canali e i dissidi nei confronti della dirigenza. Questi conduttori vengono infatti valutati e supposti come veri e propri “influencer”. Guide autorevoli di persuasione nel mercato dell’audience, nelle tracimanti pubblicità e nelle sottintese idee politiche in cui si riconoscono, più che suggeritori distaccati e terzi di fatti, notizie e avvenimenti, come dovrebbero essere quando fanno bene il loro mestiere di giornalisti imparziali e obiettivi.
Una balletto tuttavia significativo e caratteristico dei nostri giorni, ma nello stesso tempo preoccupante. Perché ulteriore segnale dello spirito dei tempi che viviamo, caratterizzato dalla ricerca affannosa di capi carismatici, di leader forti e tenaci, e di buoni comunicatori su cui scommettere, che anche se incapaci e mediocri, ci fanno dimenticare tutto il resto. A guardar bene, non ci sarebbe da preoccuparsi molto. Benché si pensi e si scriva il contrario, il nostro è anche il tempo in cui la logica neoliberista del libero mercato senza lo Stato di mezzo a dar fastidio, ormai la fa da padrona in tutti i settori della nostra vita sociale. Comprese le scuole e le cliniche private. Oggi si fa leva solo sulla pubblicità e sulla forza dei numeri. Sul mercato, sulla spinta al consumo, sulla concorrenza. Sulle cifre dell’audience o sulle percentuali dei voti presi e strappati a qualche partito. Il resto non conta.
Un tempo, il nostro, totalmente giocato sul presente, e sul pragmatismo istantaneo del giorno per giorno che scarta completamente il futuro con le sue “metamorfosi epocali” – come Bergoglio definisce i cambiamenti – e si dimentica della qualità. E che è dominato da una pericolosa quantofrenia numerica strutturale ed estesa: dai titoli di borsa e dal Pil, sino a quante scatolette di tonno si consumano ogni giorno; dalla crescita, all’inflazione; dalla quantità di giornali venduti, ai telespettatori delle tre di notte; dai frequentatori di Facebook a quelli di Whatsapp; ecc. Non escludendo le percentuali di voti presi – sempre riferite a quel 50% che ormai si reca alle urne – allo share percentuale di un telegiornale – anche qui col disinteresse su quanti in quella data ora non sono seduti di fronte alla televisione. I telegiornali, specie quelli regionali della Rai, i programmi televisivi, i talk show, i reality, le serie e la stessa fiction, sono ormai pieni zeppi di cronaca nera e di contenuti indicibili. Tali da creare ansie e paure, ma tali da fare nello stesso tempo aumentare gli ascolti.
I palinsesti annuali Rai, annunciati in pompa magna, non guardano più ai contenuti. Al bon ton, ai buoni valori, all’etica necessaria alla convivenza sociale e civile, ad una sana formazione del telespettatore e al bene comune dei cittadini; ma solo ai numeri degli share e a chi potrebbe farli aumentare, perché, da quello che si capisce, questi contenuti e questi numeri rimarrebbero fortemente legati al conduttore. Al suo viso. al suo volto, alla sua voce. E alla sua probabile capacità di fare ascolti, di avere dei fans talmente fedeli da essere trascinati da un canale televisivo all’altro, da una collocazione oraria all’altra, da un tema all’altro tema.
È forse azzardato dire che in questo trend televisivo al ribasso si rispecchiano oggi i leader dei partiti politici? Molti nuovi partiti della Seconda Repubblica italiana, sono nati con l’illusione che bastasse solo la faccia, il viso, la voce di un leader per creare un partito nuovo. Sappiamo come sono andate le cose, e dei numerosissimi fallimenti. Cosi come purtroppo sappiamo anche della crisi seria che attraversano i partiti di oggi. Ma non facciamo fatica a registrare, nello stesso tempo, che è viva e vegeta la scommessa sulla solitaria faccia e sul viso del leader, sul suo narcisismo che lo spinge – una volta uscito dal Parlamento – verso la telecamera e il giornalista (amico) per farsi intervistare. Di questo o quel leader, contano molto il suo modo di parlare, isterico o calmo che sia, le sue posture minacciose o tranquillizzanti, il suo modo veloce di camminare col cellulare in mano, i suoi giuramenti sul Vangelo, il suo linguaggio aggressivo con l’indice alzato della mano, ecc. Partiti politici di proprietà del leader. Ridotti oggi ad una dimensione liquida, se non gassosa. Con programmi simili. Con contenuti della cosiddetta destra passati alla cosiddetta sinistra, e viceversa, e con un desiderio di centro ritornato dopo De Gasperi di attualità.
I partiti di massa e quelli solidi sono già scomparsi da tempo dalla scena della democrazia rappresentativa. Trasformata anch’essa, ahimè, in un vero e proprio mercato della offerta/domanda: vendere il prodotto-partito e il prodotto programma del partito e farlo comprare con tutti i mezzi e i sotterfugi possibili di marketing. Con una inedita novità, come si accennava, denunciata da tempo da studiosi e ricercatori. Quella che oggi siamo di fronte ad un rapporto diretto non più tra partito ed elettorato, bensì tra leader e elettorato. A prescindere dall’organizzazione territoriale del partito, a prescindere dal gioco di squadra e dal team di supporto al leader, dagli iscritti e dai votanti.
Il momento attuale per la democrazia politica rappresentativa è allora molto delicato. È quello in cui i presidenzialismi forti e centralizzati che si annunciano, e che scommettono tutto su una faccia, possono avere la meglio. Senza equilibri di poteri, senza mediazioni e corpi intermedi. Anche perché Il partito politico di una volta non c’è più. E quello dei nostri giorni si trova come è noto in profonda crisi di identità. Cosi che il partito nelle mani di un leader e di un volto accresce questa crisi. Anzi la amplifica, una volta in balia di una opinione pubblica fluttuante e momentanea, appoggiata sull’istante storico e sociale che si vive e respira, e una volta che delega all’Uomo Forte i suoi bisogni e le sue attese individuali, tutte concentrate sul presente, senza domani e senza futuro. E tutte riposte sullo stimolo/risposta (S/R) immediato. Un rapporto quest’ultimo caratteristico di una banale teoria comportamentista che esclude categoricamente la possibilità del rinforzo dell’opinione già maturata in precedenza e già posseduta, o del suo completo rifiuto. E che non contempla una esposizione ai media selettiva in funzione delle proprie opinioni e dei propri valori. Dei propri gusti soggettivi.
In conclusione e analogamente, al programma TV e al suo conduttore, anche per i partiti di oggi si può allora dire che quello che conta è solo il leader. Un leader senza partito alle spalle, ma che assorbe e rappresenta tutto il partito. Il comunismo, il fascismo, il massimalismo e il radicalismo c’entrano poco. Così come c’entra poco il populismo, presente senza distinzione di partito sulla bocca di tutti gli oratori politici, da Pericle in poi.
L’illusione in entrambi i casi consiste nella convinzione che il rapporto diretto tra il conduttore del programma televisivo e del leader politico con l’opinione pubblica riesca a trainare, convincere e creare risposte positive presso i telespettatori e presso l’elettorato. Al giorno d’oggi entrambi fluttuanti e mutevoli ora per ora, giorno per giorno, programma per programma, elezioni per elezioni. Devo solo ricordare per correttezza, che non è da oggi che anche questo rapporto diretto tra stimolo di convincimento comunicativo – da qualunque parte provenga – e risposta positiva, è stato messo in discussione. Soprattutto quando si è fatta strada l’idea che il fruitore del messaggio non è un soggetto indifeso, isolato e atomizzato. Alcuni studi avviati sin dalla fine degli anni quaranta da ricercatori e sociologi americani, hanno messo in risalto i mezzi di difesa più ovvi del telespettatore e dell’elettore: le proprie precedenti idee maturate; i “corpi intermedi” come la famiglia, i mondi della vita, gli amici con i quali si discute; la realtà comunitaria e locale in cui si vive; i gruppi sociali, i colleghi di lavoro, le associazioni e i club che si frequentano; ecc…
Tutti corpi che si collocano in mezzo tra fonte della notizia e recettore, tra il leader e il voto, tra il conduttore e gli ascolti. Che traducono il messaggio trasmesso, rinforzandolo o respingendolo, in una seconda fase del flusso comunicativo non più diretto. Una fase che orienta le reali opinioni e i concreti comportamenti finali del consumatore e dell’elettore. E che va oltre gli “influencer” oggi frettolosamente identificati col conduttore televisivo…e col leader forte di partito.
Nino Labate
Pubblicato su Il Domani d’Italia.eu