Terrorismo e terroristi sono vocaboli che ricorrono quotidianamente nei media, ma che richiederebbero di essere meglio definiti. Terroristi sono quanti praticano il terrorismo che, secondo la definizione del dizionario Treccani, consiste nell’“uso di violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività organizzata e a destabilizzarne l’ordine, mediante azioni quali attentati, rapimenti, dirottamenti aerei e simili”. Una definizione che può applicarsi, oggi, alle azioni di Hamas, di al-Qaida, dell’Isis, ieri, a quelle dell’ETA o dell’IRA, o delle varie sigle in cui si articolavano il terrorismo nero e quello rosso.

Alcuni anni fa, Maurizio Viroli, su “La Stampa”, distingueva dall’azione terroristica il tirannicidio e le azioni di “resistenza” nei confronti di un esercito straniero occupante un Paese. Infatti, colpire militari è cosa assai diversa dal fare esplodere un autobus uccidendo passeggeri innocenti.

Tuttavia, ci sono contesti in cui è difficile distinguere tra caduti militari e vittime civili. Ciò accade quando la guerra è condotta in Paesi o regioni etnicamente frammentati con gruppi etnici schierati su fronti opposti (è il caso delle guerre che hanno insanguinato la Jugoslavia). Lo stesso è avvenuto nelle guerre di liberazione dal colonialismo in cui sovente i “ribelli” coinvolgevano nelle loro azioni violente anche gli abitanti di origine europea che da generazioni risiedevano nel Paese (vedi La Battaglia di Algeri, film di taglio documentaristico).

Nei media, si parla sovente di terrorismo come fosse un soggetto (una organizzazione che del terrorismo fa un fine in se stesso), mentre in realtà è un metodo che viene adottato da soggetti diversi. Fra tali soggetti, non ci sono solo gruppi o movimenti od organizzazioni del tipo di quelli sopra citati; ci sono anche numerosi Stati che hanno praticato e praticano direttamente azioni terroristiche, o che promuovono e/o appoggiano movimenti terroristici. E fra questi, non ci sono solo gli Stati dispotici o totalitari, ci sono anche degli Stati democratici, compresi quelli occidentali,

Mi soffermo su Israele, che oggi, a Gaza e in Cisgiordania, impiega una sproporzionata e devastante potenza militare in nome della lotta al terrorismo, ma che certo non si è mai sottratta al ricorso a questa criticata pratica.

Nel periodo 1945-1948, varie organizzazioni dell’estremismo sionista, come la Banda Stern e l’Irgun (braccio separato dell’Haganah), misero in atto una serie di omicidi, rapimenti e attentati, in Palestina e all’estero, nei confronti di militari e personale civile britannico, conducendo una campagna terroristica (diretta anche contro gli arabi palestinesi) di tali proporzioni che Winston Churchill (pur sostenitore del movimento sionista) denunciò e condannò duramente nel 1946, nelle vesti di Primo ministro. Grande rilevanza ebbe poi, nell’aprile del 1948 (alla vigilia della dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele), la strage dell’intera popolazione del villaggio palestinese di Deir Yassin, dopo che da tempo continuavano le violenze dei gruppi sionisti sui contadini palestinesi per indurli a lasciare la propria terra. Questa strage è stata la premessa della nakba, l’esodo forzato di larga parte della popolazione palestinese dalle case e dai villaggi in cui viveva da generazioni.

Con la nascita dello Stato di Israele, il terrorismo non è stato messo da parte. Il primo gravissimo gesto fu l’assassinio del Conte Bernadotte, inviato dall’ONU ad indagare sulle espulsioni in atto nel Paese. Ci sono poi stati sequestri di persone all’estero (vedi quello del tecnico israeliano Mordechai Vanunu, che denunciò il riarmo nucleare del suo Paese, rapito a Roma nel 1986), esecuzioni di persone varie, e azioni spregiudicate, come l’ “Affare Lavon” (vedi su Google) che nel 1954 rischiò di portare gli Stati Uniti a rompere le relazioni diplomatiche con Israele.

C’è chi sostiene che le azioni menzionate fossero opera di estremisti, di “cani sciolti”, in contrasto con le disposizioni del gruppo dirigente sionista e in seguito israeliano. Difficile crederlo: di tali imprese (mai sanzionate con condanne), sono stati protagonisti uomini come Menahem Begin e Yitzhak Shamir, in seguito promossi a ruoli direzionali nel Mossad e in altre organizzazioni statali, e diventati poi primi ministri, o come Ruhas Lavon che, quando organizzò gli attentati contro obiettivi americani e britannici in Egitto, era ministro della Difesa in carica. Ricordo ancora che Begin era il primo ministro che nel 1982 diede il via libera all’ingresso nel campo profughi di Sabra e Chatila (circondato e strettamente controllato dai militari israeliani) ai falangisti libanesi che compirono una strage non diversa per numero di vittime e tipologia di violenze da quella recentemente compiuta da Hamas.

C’è poi l’America, che, pur essendo uno Stato a cui non mancano ben altri mezzi (politici, economici e militari) per imporre la sua volontà, non è stata esente dal far ricorso a pratiche riconducibili al terrorismo. Ricordo la condanna subita da parte della Corte internazionale dell’Aia per le azioni terroristiche condotte in Nicaragua, e i vari gruppi terroristici attivamente sostenuti, come i Contras, gli Anticastristi, l’Unita di Savimbi in Angola, l’UCK kosovaro e i mujaeddin, quei fondamentalisti islamici, certo protagonisti della “resistenza” all’occupazione sovietica, ma che colpivano indiscriminatamente la popolazione civile, in particolare uccidendo e/o violentando donne emancipate, insegnanti e studentesse, e che, con la vittoria, fecero ripiombare (ben prima dei talebani) l’Afghanistan in un oscuro medioevo.

In ogni caso, teniamo sempre presenti le parole dell’ancora cardinale Joseph Ratzinger: “Il terrorismo rappresenta oggi una sorta di nuova guerra mondiale, ma non può essere vinto solo facendo ricorso esclusivamente agli strumenti della forza. Perché la forza del diritto non si trasformi in arbitrarietà, essa deve sottostare a rigidi criteri da tutti riconosciuti. Devono essere ricercate e rimosse le cause del terrorismo, che spesso affonda le sue radici in preesistenti ingiustizie. Occorre spezzare il circolo vizioso dell’occhio per occhio, senza di che non c’è via d’uscita dalla violenza. Ad agire non deve essere un singolo potere perché troppo facilmente possono entrare in gioco interessi propri, facendo perdere di vista ciò che è giusto: urge un vero ius gentium senza mire e corrispondenti atti di predominio egemonico”. Indicazioni da cui è molto diverso quanto vediamo fare oggi.

Finora sono rimasto alla definizione di terrorismo data dal dizionario Treccani, che però ritengo limitativa. Infatti, nel mio vecchio dizionario Zingarelli, alla voce terrorismo, trovo anche: “Regime instaurato da governanti o belligeranti che si valgono di mezzi atti ad incutere terrore”.

Di regimi che governano ricorrendo al terrore, la storia ce ne ha mostrati parecchi (dalla rivoluzione francese ai totalitarismi novecenteschi e alle dittature militari latinoamericane) sui quali non è il caso di soffermarsi.

Ci sono poi gli Stati che, in guerra, ricorrono al terrorismo con vari mezzi e modalità al fine di fiaccare il morale della popolazione del Paese nemico colpendola direttamente o indirettamente.

Lo strumento principe impiegato per terrorizzare la popolazione civile è costituito dai bombardamenti definiti appunto “terroristici”. Si cita Guernica, dove la Luftwaffe sperimentò la tecnica necessaria a tal fine; poi si ricordano Coventry, spianata sempre dalla Luftwaffe, e Londra colpita dalle V1 e V2. Tuttavia, nella Seconda guerra mondiale, sono state le forze alleate a ricorrevi maggiormente per la netta superiorità quantitativa e in parte qualitativa della flotta aerea anglo-americana rispetto a quelle tedesca e giapponese.

Molti tendono a giustificare tali azioni presentando le vittime civili come non volute, ma inquadrabili fra i “danni collaterali”. Ma non è così. Proprio Arthur Harris, alla guida del Commander Bomber della RAF, ha detto che, fra i principali obiettivi delle incursioni sulle città tedesche, c’era proprio la popolazione civile, sebbene la grande maggioranza delle vittime fosse costituita da donne, bambini e anziani. Poi ci sono state le atomiche su Hiroshima e Nagasaki, due giganteschi episodi di terrorismo, finalizzati a piegare la resistenza del popolo giapponese, essendo queste città prive di significativi obiettivi militari.

In tempi a noi più vicini, atti di terrorismo sono stati i bombardamenti sul Vietnam, e quelli attuati nelle più recenti guerre nei Balcani e in Medio Oriente, anche se, in questi ultimi casi, molto si è insistito da parte dei media nel presentare le devastazioni e le vittime civili come “danni collaterali”.

Sia chiaro che tutte le nazioni impegnate in guerra sono ricorse e ricorrono (vedi in Ucraina e a Gaza) all’uso di armi contro obiettivi civili, popolazione compresa: infatti, nella ormai consolidata logica della guerra moderna (intesa come guerra totale), si ricorre a ogni mezzo, e non si fanno distinzioni fra bersagli militari e civili per conseguire la vittoria.

Rientrano in modalità di ordine terroristico anche azioni che apparentemente non sembrano di tale natura, ma che in realtà lo sono avendo come obiettivo la popolazione civile. Fra queste, ci sono i blocchi di vario tipo, che hanno provocato o possono provocare molte più vittime innocenti di qualsivoglia attentato: ad esempio, le sanzioni imposte all’Iraq di Saddam Ussein hanno causato più morti per carenza di cibo e di medicinali, specie fra i bambini e gli anziani, dei bombardamenti a cui è stato soggetto il Paese; altrettanto oggi le limitazioni ai rifornimenti di cibo, medicinali e carburanti per la popolazione di Gaza rischiano, se continueranno, di provocare forse più vittime dei pur devastanti bombardamenti.

Non mi sento in grado di fare una distinzione, sul piano etico, tra il terrorismo messo in atto da chi ritiene di non avere altro mezzo di lotta a sua disposizione e quello realizzato con metodi ben più distruttivi (siano essi militari o di altra natura), entrambi egualmente sanzionabili. C’è chi condanna le azioni terroristiche di taglio artigianale e non quelle di altra natura, perché considera le prime inutili, improduttive, non conducendo a risultati politici. Così, si resta nella logica che, a giustificare o meno i mezzi impiegati, siano i fini, i risultati, e non la natura di tali mezzi. Inoltre, chiediamoci se le guerre possano essere ritenute produttive ed essere giustificate dalla ricerca di nuovi equilibri, ancorché fossero a garanzia della pace.

Papa Francesco ha detto chiaramente di no. Le guerre sono sconfitte per tutti, e non portano mai alla pace, ma a nuove più vaste guerre. I problemi si risolvono col dialogo, con le trattative, tenendo presenti le esigenze e la preoccupazioni di tutte le parti, e accantonando la visione ideologica della guerra concepita come scontro tra “buoni” e “cattivi”, fra i quali non può esserci intesa. Tuttavia, si vis pacem para bellum rimane il detto che ispira la politica estera di tutte le grandi potenze, a partire dall’America e i suoi alleati della NATO.

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