La richiesta di dimissioni del Presidente della Repubblica da parte di un parlamentare leghista, se fossimo in un Paese normale, meriterebbe, per un verso di essere sepolta sotto una corale risata, soprattutto in considerazione della fonte, ma, per altro verso, esigerebbe d’essere immediatamente stigmatizzata dalle più alte cariche dello Stato, a cominciare dai tre palazzi, Chigi, Madama e Montecitorio. Senonché, per quanto sia l’ espressione più eloquente della verticale caduta di qualità di una classe dirigente affetta da ignoranza istituzionale, immaturità politica ed incontinenza verbale, nel clima di divisione del Paese e di forzata estremizzazione dello scontro elettorale che la destra va cercando, le reazioni tardive del giorno o di due giorni dopo, la dicono lunga.

Il Capo del Governo, dopo un prolungato silenzio tombale, non ha trovato di meglio che lodare la faccia tosta con cui Salvini, dopo aver lanciato il sasso, ha cercato maldestramente di nascondere la mano. Il Presidente del Senato, con uno sforzo erculeo, ha definito – bontà sua – timidamente “inopportuno” l’accaduto. E il leghista Presidente della Camera era evidentemente impegnato altrove. Insomma, non è spiaciuto a costoro cogliere l’occasione per provare ad insidiare non tanto il Colle come tale, ma la figura che oggi ne incarna la funzione.

Del ruolo istituzionale del Presidente della Repubblica questi soggetti pensano si possa anche discettare, ma è Mattarella che a loro dà fastidio. Sergio Mattarella gode di tale stima ed è talmente fuori dalla loro portata da rappresentare per una politica talmente decaduta – il che vale anche per l’ altro versante dello schieramento bipolare – una minaccia con la sua sola presenza, un termine di confronto insostenibile. E poiché gli italiani non sono un popolo di rimbambiti – e questo lo sa anche lei – la signora di Palazzo Chigi che tutto può, tutto vuole e tutto spera, mette le mani avanti e se ne guarda bene dal giocarsela a viso aperto, accettando la sfida del referendum. Si è premurata, infatti, di ribadire che, se pure la sua riforma costituzionale venisse respinta dagli italiani, lei non farebbe una piega. Insomma, la legittimazione la prende dove la può trovare più a buon mercato, a costo di accontentarsi del Parlamento, piuttosto che del plebiscito della “nazione”.

Se le si può dare un consiglio, la prossima volta si accontenti di vincere – cosa tutt’altro che improbabile – contro quel che troverà dall’altra parte, ma pur sempre sfruttando la camicia di forza del bipolarismo maggioritario ed il soccorso dell’astensione. Cerchi di sfangarla come le è riuscito la volta scorsa.

Il giorno che, pur senza ubriacarsi al Papeete, volesse, a suo modo, invocare i “pieni poteri”, è, con ogni probabilità, la volta che gli italiani la rimandano al colle, Oppio s’intende. E cominci a riflettere su quel po’ di corrosione che inevitabilmente il “culto della personalità” reca con sé, e via via crescente.

Domenico Galbiati

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