Con il ritorno di Enrico Letta il Pd mette indietro le lancette? Sono passati sette anni e un mese esatti da quel 13 febbraio 2014 allorquando la Direzione del Pd con uno schiacciante 136 a 16 fece suo lo ” stai sereno” di Matteo Renzi e lo sbatté in faccia all’allora Presidente del Consiglio. Fu l’intero Pd, su istigazione di Giorgio Napolitano come ricorda qualcuno, a toglierlo di mezzo per preferirgli il rampante ex sindaco di Firenze.

Persona garbata, Enrico Letta, ne prese atto e silenziosamente salì al Quirinale per rassegnare le dimissioni. Cosa pensasse davvero emerse al momento di passare al proprio successore la fatidica campanella del Presidente del consiglio. Gli bastò accennare, appena appena, una specie di espressione di distacco per rivelare il giudizio sulla sua giubilazione, ratificata dalla stragrande maggioranza del partito.

Adesso si riavvolge il nastro per tornare a quei momenti. Enrico Letta dice di volersi mettere non alla ricerca dell’unanimità, bensì della Verità. Visto che lo deve fare nel Pd non resta che dirgli: auguri!

Nel corso dei sette anni trascorsi molta acqua è passata sotto i ponti. Non appena egli fu costretto a lasciare, il Pd “renziano” salì al 40%, ma si rivelò cosa effimera. Adesso, alla fine dell’esperienza di Zingaretti, sembra veleggiare giusto attorno al 15%. Da nemici feroci, i 5 Stelle sono diventati l’unica stampella cui appoggiarsi per provare a salvare il salvabile. Intanto, anche grazie al Pd, la destra, l’estrema destra, avanza in tutto il Paese. Questo nonostante la linea di Salvini e Meloni sia evidentemente sconfitta là dove conta davvero: sullo scenario europeo e internazionale.

E’ questo un segno ancora più grave della crisi in cui è piombato il principale partito del centrosinistra che non riesce a divenire competitivo. Incapace fino a ieri persino ad intestarsi quei mutamenti che hanno portato l’Europa a scegliere una linea meno neo liberista e, vedremo quanto momentaneamente, ad accantonare l’idea dell’austerità per affidarsi ad una solidarietà condizionata e, speriamo, non limitata all’esperienza del Coronavirus.

Come nel caso dell’insediamento di Mario Draghi a Palazzo Chigi,  ma persino quello di Giuseppe Conte alla guida dei Cinque Stelle, il ritorno di Letta ripropone la presentazione di personaggi più rassicuranti e in grado di fornire garanzie certe a chi a Bruxelles e Francoforte deve consentire all’Italia di spendere di più e di aumentare il debito.

Per quanto riguarda però le vicende interne al Pd, c’è da chiedersi il senso di questa “riconversione”. Gli stessi che in malo modo si disfecero di Letta, adesso, lo richiamano. Qualcuno ha attribuito a questo schivo politico pisano, costretto a circa un lustro d’esilio parigino, l’avvertimento rivolto ai capi corrente del Pd: “non accetterò diktat”. Fosse vera, questa frase già direbbe qual è la situazione interna e con quanto disincanto e realismo Enrico Letta si appresti a guidare il Pd. Probabilmente, egli ha ben presente il ricordo del modo in cui, per ben due volte, il centrosinistra giubilò Romano Prodi.

Allora, dobbiamo constatare come l’operazione in corso al vertice del Pd non abbia quell’afflato che, invece, sarebbe necessario per rigenerare davvero una delle principali forze cui è stata legata, con il contraltare berlusconiano, la stagione della cosiddetta Seconda repubblica. Non ci sembra che l’operazione Letta sia frutto di una lunga e necessaria sofferta operazione di verità, ma solo la constatazione della profondità della crisi cui si è giunti per non aver dato per tempo una risposta adeguata.

C’è chi parla di una ripresa del mondo cattolico all’interno del Pd. Una vera impresa. La cosiddetta “radicalizzazione” di quel partito è in fase davvero avanzata. Così come la contraddizione insita nel tentativo di sposalizio di una visione individualistica,  propria del neo liberalismo, con una tensione solidaristica più propriamente caratteristica del pensare socialmente avanzato. Una contraddizione frutto dell’incapacità d’interpretare la società moderna e della frattura creatasi, senza essere né affrontata né risolta, rispetto ai ceti sociali storicamente di riferimento.

E’ questa storia antica, in effetti, che, sul piano elettorale, risale addirittura al trasferimento in massa dei ceti operai nel leghismo del nord e alla perdita delle periferie delle grandi e medie agglomerazioni urbane.

Resta un Pd che regge nei centri storici delle principali città e nelle due regioni, Emilia Romagna e Toscana, dove ancora è forte quell’apparato fatto di potere istituzionale, rete economica e ” controllo” del territorio. Può bastare tutto ciò a Enrico Letta per ricominciare, ammesso che i capibastone del Pd gli consentano di ricominciare davvero?

Giancarlo Infante

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