Chi le sia amico sincero dovrebbe dare a Giorgia Meloni un consiglio che ci permettiamo, rispettosamente, di suggerire: che non entri o non si lasci attrarre dalle voci suadenti degli adulatori nel tritacarne del “culto della personalità”. Come sembra stia forse per avvenire, con questa faccenda della preferenza al nome, a dispetto del bene del Paese e suo personale.
L’Italia ha questa patologica propensione a prediligere, non appena se ne presenti l’occasione, l’ “uomo forte” – o, del caso, la donna, ma fa lo stesso – solo al comando. Da dove tragga origine questa attitudine servile non è facile dirlo. Dal fatalismo smagato di un popolo che, nella sua plurimillenaria storia, ne ha viste di tutti i colori? Da una certa innata pigrizia, inclinazione che, non di rado, se si tratta di singole persone, si accompagna a non indifferenti doti intellettive? Da un atavico sentimento di insicurezza collettiva? Da un esercizio della democrazia tutto sommato ancora acerbo, poiché, in effetti, data soltanto, a differenza di quanto successo in altri Paesi, dal secondo dopoguerra?
Ad ogni modo, noi italiani siamo un po’ fatti così e bisogna pur osservare se’ stessi con una certa autoironia.
Insomma, non è un bella cosa se un’altra volta gli italiani, magari sbadigliando, pensano di schivare quel che costa la libertà e di sbarcare il lunario disponendosi, allineati e coperti, dietro il capo di turno, ma ci può perfino stare….poi passa la sbornia e ci si rimette a ragionare. Ma il “culto della personalità” è un’altra cosa. Rappresenta il punto di non ritorno di una involuzione democratica seriamente pericolosa, che manda letteralmente in tilt la complessiva “governance” del sistema politico-istituzionale. Almeno inteso secondo il canone dell’ordinamento democratico che ci sta a cuore.
C’è chi pensa – ingenuamente? – che il culto della personalità rappresenti una sorta di sublimazione che esalta la “leadership” e la consacra, assumendola in un’ aura di superiorità inappellabile ed altera, espressione incarnata del “Destino” che, in quel determinato frangente temporale, batte sul quadrante della storia. Ma è vero esattamente il contrario. Il culto della personalità, infatti, ottunde la qualità della “leadership”, nella misura in cui implica, da subito, un sia pur iniziale, distacco dalla realtà che cresce via via, alimentando sé stesso, fino all’ inverosimile. Dovrebbe preoccuparsene Giorgia Meloni, nella misura in cui queste doti di leadership le possiede in buona misura e, dunque, è bene che non le butti alle ortiche, ergendosi sopra il popolo quasi fosse un idolo. Resti tra gli umani.
Del resto, il culto della personalità evoca, necessariamente, il “demiurgo”, quale figura mitica ed imponderabile, addirittura magica, che si presume capace di riordinare il caos delle cose e degli eventi secondo uno statuto valoriale imposto e sovraordinato al “volgo”, dimensione in cui viene appiattito ciò che altrimenti si chiamerebbe “popolo”. La storia dimostra come il “culto della personalità” non sia, al di là di ogni apparenza, fatto salvo il temporaneo appagamento, che l’inizio della fine. Un luogo elevato che è, ad un tempo, un trono ed un altare sacrificale. Infatti, da lì, si può solo scendere e, per lo più, questo avviene ruzzolando giù rovinosamente. E questo deriva dalla simmetria necessaria, eppure sghemba, su cui appoggia la relazione tra l’ “Unto” e la massa che a lui inneggia. Un rapporto biunivoco di rimandi incrociati e di equivoca co-appartenenza, tale per cui ciascuno dei due termini è prigioniero dell’altro, secondo un processo che, infine, ineluttabilmente si risolve in una reciproca dissoluzione.
Domenico Galbiati