La UE intende allargare i suoi confini all’Ucraina, alla Moldova e alla Georgia, mentre c’è già chi strizza l’occhio al Kazachistan (auspicandone una conversione ai valori occidentali). A fronte di questo passo, riprendo una considerazione fatta nel 2018, in un articolo su questa nostra rivista on line dal titolo Una Europa con poca coscienza di sé.
Molti, a cominciare dal vertice comunitario, parlano di Europa senza proporne un concetto chiaro. Il riferimento geografico pare irrilevante: ne è considerata parte Cipro (in Asia); per lungo tempo si è parlato di ingresso della Turchia (con il solo 3% di territorio e il 14% della popolazione in Europa); si esclude la Russia (con il 25 % del territorio, ma con il 75% della popolazione in Europa, e che ha dato un significativo apporto alla costruzione della ricchezza culturale europea); e oggi si parla di Georgia, collocata totalmente in Asia e priva di continuità territoriale con paesi della UE o aspiranti tali.
Abbandonato il requisito geografico, a quale riferimento guardare?
Europa è un termine o un concetto che richiede di essere definito, ed è bene ricordare che ogni definizione pone dei confini, circoscrive l’oggetto che in essa rientra e lo separa da ciò che ne sta fuori.
Oggi, a sentire i discorsi dei fautori dell’Europa allargata, i riferimenti sarebbero l’assetto istituzionale, e i valori liberaldemocratici. Ma, pur essendo assai discutibile che i Paesi sopramenzionati, e più in generale i Paesi dell’Europa orientale e balcanica siano in regola da questo punto di vista, a rendere improponibili tali riferimenti, c’è un aspetto sostanziale: non sono requisiti specifici dell’Europa (li possiamo trovare in Paesi dei continenti americano, asiatico e oceanico) e quindi non circoscrivono l’oggetto in questione. Di fatto, il concetto di Europa, sulla base di detti riferimenti, si risolve in quello di Occidente, dissolvendosi.
A pensar male si fa peccato (diceva Giulio Andreotti), ma quasi sempre si indovina. La sottintesa caratteristica dei nuovi candidati all’ingresso nella UE consiste nel confinare con una Russia verso cui ne va coltivata l’ostilità, esaltando i rinati nazionalismi locali, e così soddisfare l’aspirazione americana a indebolire ulteriormente un suo storico avversario. Già nel lontano 1835, Alexis de Tocqueville intravedeva una probabile futura competizione fra quelle che riteneva due potenze emergenti.
In ogni caso, come ha scritto Ernesto Galli della Loggia, in polemica con i fautori del patriottismo costituzionale, “bisogna convincersi che le società non esistono perché hanno una costituzione, e che la migliore tavola immaginabile di diritti e di istituzioni non basta a formare una società”, e (aggiungo io) meno che mai uno Stato unitario europeo.
L’Europa nel suo significato più profondo è qualche cosa d’altro: ciò che chiamiamo Europa è un prodotto della cultura dei suoi popoli, e non un semplice riferimento geografico e neppure il solo frutto dell’adesione a una serie di valori ed istituzioni di recente proposizione sul piano storico. Per Agnes Heller, l’Europa è essenzialmente un prodotto dello spirito (religione inclusa), della cultura e della memoria condivisa di coloro che la hanno abitata e la abitano.
Domenico Accorinti, in un commento all’articolo cui mi richiamo, aveva scritto che avere una cultura o una civiltà condivisa non è sufficiente per formare una comunità politica, come hanno mostrato l’Ellade e l’Italia medievale e rinascimentale. Verissimo. Tuttavia, sono convinto che non sia possibile realizzarla senza possedere questi elementi perché non si costruisce niente di solido e duraturo sulle sole esigenze economiche, politico-istituzionali o militari. Oltre ad appartenere ad una stessa civiltà o cultura, ci vuole quella speciale forma di spiritualità che fa sentire i membri di una collettività come cittadini di un unica entità politica, legati da un patto di solidarietà.
Ora, i cittadini dei 27 Paesi della attuale UE hanno questo comune sentire? Sono pronti a fare sacrifici quando lo richiedono pressanti necessità di Paesi comunitari in difficoltà? Credo che si possa tranquillamente dire di no, almeno al momento attuale. Ed altrettanto capiterà domani, tanto più se la UE si allargherà ulteriormente.
L’attuale Europa comunitaria è spaccata in varie parti. La Gran Bretagna ne è già uscita, privilegiando i rapporti con il mondo anglofono, in particolare con gli USA, potenza marittima come è stata e in parte è ancora essa. Distanti dalla componente occidentale della UE (e in particolare dai Paesi fondatori) sono i Paesi dell’Europa orientale e balcanica, rimasti ancorati a un vetero nazionalismo, e che nulla hanno compreso della necessità di accantonare i vecchi odi e rancori. Ad essi, si stanno progressivamente avvicinando i Paesi scandinavi, che fino ad oggi hanno visto nella UE solamente un mercato e un’opportunità economica.
C’è poi una frattura fra Nord e Sud, presentata talora come fra Paesi “rigorosi” e Paesi “spendaccioni”, se non che a questi ultimi si sta avvicinando la Francia, mentre la Germania comincia ad avere problemi economico-produttivi da quando le manca il metano russo a buon mercato.
Oggi poi le cose si complicano ulteriormente. In Germania, si sta verificando, come scrive Dario Fabbri, un aspro contrasto tra il territorio che costituiva la Repubblica Democratica e la parte occidentale del Paese. Nell’Est, dove ha conservato un qualche peso Die Linke (formazione che raccoglie i nostalgici della esperienza comunista), fortemente ostile alla NATO, si è ora affermata Alternative fur Deutschland che, secondo Fabbri, rappresenta il riemergere di quella forma mentis prussiana (già presente nella Germania Democratica) da sempre sospettosa del Sud cattolico e dell’Ovest influenzato dall’illuminismo francese (c’è chi la ha definita una sorta di “Lega Est”). Questa Germania “prussiana”, in una logica bismarckiana, guarda ad Est, e ritiene che la Russia non debba essere considerata un nemico. L’apertura tedesca all’ingresso dell’Ucraina nella UE accentua questa frattura.
Pure nella componente orientale della UE, non c’è più intesa, e anche il Gruppo di Visegrad (fino a ieri unito nel respingere intromissioni delle istituzioni europee negli affari interni degli Stati) si è spaccato. C’è stato in primo luogo il cambio di maggioranza in Polonia, ma comunque non tutti (a partire da Ungheria e Slovacchia), pur non avendo alcuna simpatia per Putin, si sentono impegnati in prima fila contro la Russia a sostegno dell’Ucraina. Un sentimento diffuso anche in Austria e in Paesi di cui si auspica l’ingresso nella UE, come Moldova e Serbia.
Si potrà dissentire da tale analisi dicendo che il voto unanime (con l’uscita dall’aula dell’Ungheria) a favore dell’ingresso dell’Ucraina nella UE, e il sostegno ad essa dato con l’invio di armi unitamente allo stanziamento di 50 miliardi di euro, evidenziano l’impegno unitario della Comunità su un tema di rilevante importanza. Tuttavia, le cose sono molto più complesse, e solo il futuro ci dirà quanto possa essere reale questa manifestazione unitaria, in particolare se la guerra in Ucraina dovesse continuare a lungo, e se si rilevassero illusorie le sempre annunciate vittoriose offensive ucraine. Inoltre, immaginiamo che cosa potrebbe accadere se Trump vincesse le prossime elezioni, o se si consolidasse al vertice degli USA quella componente isolazionista, non solo repubblicana, determinata a far abbandonare al proprio Paese il ruolo di poliziotto del mondo.
Giorgia Meloni ha più volte dichiarato che non sono accettabili in seno alla UE decisioni prese da qualsivoglia direttorio (in pratica il duo franco-tedesco), e ha accolto malissimo il varo delle nuove regole del patto di stabilità elaborate dai ministri dell’economia di Francia e Germania. Ha aggiunto che nessuno ha titolo per stabilire chi sia più europeo o meno.
Vediamo come stanno le cose. A tal fine, faccio un passo indietro tornando al mio articolo del 2018.
È nell’alto Medioevo che si delinea il primo abbozzo della fisionomia europea quando, nel cuore dell’impero carolingio, nasce una nuova civiltà dalla ormai avvenuta fusione degli elementi forniti dal mondo romano, dai popoli germanici e dal cristianesimo. Da questo originale nucleo carolingio, l’Europa in tempi successivi si è progressivamente allargata acquisendo i popoli iberici, le genti delle isole britanniche di origine celtica e germanica, gli ungari, gli scandinavi e gli slavi occidentali, ciascuno dei quali ha fornito nel tempo un suo più o meno rilevante contributo alla costruzione dell’edificio culturale europeo. A partire dal XIX secolo, anche gli slavi orientali ed i balcanici ne sono progressivamente entrati a far parte, ma non senza qualche maggiore difficoltà.
Se osserviamo il cammino di formazione e di allargamento della UE, possiamo trovare analogie con quanto ora descritto. Tali analogie riguardano i differenti tempi di adesione ai trattati dei vari Paesi, procedendo dal centro carolingio verso la periferia europea, e parimenti le crescenti problematiche incontrate nel processo di allargamento. Non credo che ciò sia casuale: è il peso delle vicende storiche a farsi sentire. Il ricorso alla dizione ancor oggi utilizzata di “Europa carolingia” indica qualche cosa che va oltre una pura coincidenza territoriale fra il regno di Carlo Magno e i Paesi fondatori della Comunità europea: a caratterizzarla, c’è, in questi ultimi, un più profondo sentire di appartenere a una comune cultura dalle lontane radici.
Inoltre, ci sono le “difficoltà” incontrate dagli slavi orientali e sud balcanici a farsi riconoscere parte dell’Europa, difficoltà che nascevano e nascono dai differenti percorsi storici da essi seguiti rispetto agli europei occidentali. Il legame culturale con il cristianesimo e l’eredità del mondo antico sono stati loro trasmessi tramite la grande tradizione greco-bizantina. Questa tradizione è caratterizzata da una assente o scarsa distinzione tra la sfera politica e quella religiosa, da un connesso monolitismo politico-religioso (o talora ideologico), da una marcata spiritualità e una certa staticità a fronte del pragmatismo e dell’intraprendenza degli europei occidentali. Ciò non riguarda la sola Russia, ma altresì l’Ucraina, la Bielorussia e tutti gli altri Paesi di fede ortodossa (compresi quelli non slavi come Romania, Moldova e Grecia).
Tornando a quanto detto da Giorgia Meloni, contraria a direttori, a unioni rafforzate, a gruppi di Paesi che intensifichino i loro rapporti, e guardando al futuro della UE, credo che, tra i 27 membri attuali, e peggio includendo i nuovi candidati, non ci sia né una identica volontà, né una pari capacità di essere parte di un vero cammino unitario europeo. Ritengo quindi che inevitabilmente si riproporranno percorsi differenziati con la costituzione di unioni rafforzate e/o di un nucleo di partenza.
Per quanto mi riguarda, i soli candidati atti a svolgere un tale ruolo sono i Paesi della cosiddetta “Europa carolingia allargata”, ma vedo che, per responsabilità di tutti, prevalgono ancora, e forse si accrescono egoismi, risentimenti, invidie e ripicche che non lasciano bene sperare. Tuttavia, quanti prendono di mira in particolare Francia e Germania devono tenere presente che senza questi due Paesi, o peggio contro di essi, non si va da nessuna parte e non ha senso parlare di unità europea.
Giuseppe Ladetto
Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione I Popolari del Piemonte (CLICCA QUI)