Nei primi anni del nuovo secolo Vyacheslav Nikonov era una conosciutissima personalità russa. Non solo perché era il Presidente della Commissione Cultura della Duma, il Parlamento di Mosca. Ma anche, e soprattutto perché nipote di suo nonno. Che poi non era stato nessun altro se non il famoso politico e diplomatico sovietico Vyacheslav Skrjabin, detto Molotov, . Ed a livello internazionale era conosciuto anche per essere il Presidente di Russkiy Mir, la fondazione incaricata di mantenere vivi i rapporti con la loro Patria dei 25 milioni di russi che la spartizione dell’Unione Sovietica aveva lasciato fuori dai confini della Federazione.
Era quella una stagione in cui si parlava ancora dell’unipolar moment – della preminenza senza rivali – di cui godevano gli Stati Uniti avevano dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e prima dell’attacco alle Torri Gemelle, un tema cui Nikonov prestava ovviamente grande attenzione. E fu durante un incontro su questo tema che egli d’un tratto mi rivolse una domanda relativa all’Europa. “Perché – egli mi chiese – l’Europa collabora così poco con la Federazione russa?”. E aggiunse: “Entrambe avrebbero interesse ad una migliore definizione, ad una più equilibrata ridefinizione del sistema internazionale! Lavorando insieme potremmo pesare di più, e perseguire più facilmente e con maggiore efficacia i nostri obiettivi.”
Ammetto che la sua domanda mi colse di sorpresa. Così come debbo ammettere che la mia risposta – che fu un’altra domanda: un interrogativo retorico – aveva tutte le ragioni per sconcertarlo. “Ma quali obiettivi ha l’Europa? Quale disegno per l’ordine globale?”. E siccome lui mi guardava con gli occhi spalancati, mi venne estremamente spontaneo dire: “La Russia, o quel che ne rimane, non può essere confrontata con Europa! La Russia è una grande nazione imperiale che attraversa una fase tragica della sua storia. Ma rimane un vincitore della seconda guerra mondiale. L’Europa invece non è altro che una coalizione dei paesi sconfitti in quella guerra. E che, dopo la disfatta, presentandosi con un diverso biglietto da visita, hanno cercato di non essere restare dei pariah dalla comunità internazionale, di essere ancora accettati.”
Io stesso rimasi sconcertato dalla mia risposta, come fu lui. Era come, senza volerlo, mi fossi fatto sfuggire una verità che non si poteva dire, un segreto sino allora tenuto nascosto con ogni cura, o addirittura negato a me stesso. Fu il segno più chiaro e sincero che io avessi mai ricevuto da me stesso della sensazione, o meglio della presa d’atto che l’Europa potesse essere ormai considerata una causa persa.
Il furore di Altiero Spinelli
Da allora molte cose sono avvenute, e sempre più è andata via via chiarendosi la natura dei fenomeni politico-economici verificatisi nell’Europa del dopoguerra. Tra essi, in primo luogo quello della lotta – voluta dagli Americani – contro le tradizioni autarchiche tedesche e francesi, attraverso la creazione di un mercato unico nei settori considerati strategici dopo la Prima Guerra mondiale. Che erano allora (ma non sono più veramente) soprattutto quelli del carbone e dell’acciaio. Settori strategici in senso tecnico, cioè indispensabili a entrambe le Nazioni rivali ai fini della condotta di una guerra sul fronte del Reno.
L’altro fenomeno – a carattere geopolitico, questo – che ha interessato l’Europa a partire dal 1947, è stato il manifestarsi di un’ancor oggi insoddisfatta ricerca britannica di un ruolo internazionale dopo la perdita dell’Impero. Ricerca che non poteva non riprendere l’assoluta ostilità alla formazione di una potente entità economico-politica sulla sponda orientale della Manica; e ricerca concretatasi – quando a Londra apparve evidente che la CEE era ormai decollata – nei 43 anni della “adesione/invasione” tatcheriana e nello snaturamento del progetto dei Sei membri originari attraverso l’allargamento senza fine del numero dei paesi membri.
Non può sorprendere la progressiva disaffezione di chi aveva originariamente creduto nell’ideale unitario, nella pacificazione tra i due rivali che tanto sangueaveva fatto versare nella prima metà del ventesimo secolo. Tra cui c’erano in particolare i progressisti Italiani, che nella costruzione europea avevano veduto un naturale e quasi mazziniano prolungamento del Risorgimento e il compimento della loro rivoluzione nazionale, frustrata dapprima dai Savoia e poi dai fascisti.
Indubbiamente! Alla fine il sabotaggio britannico attraverso l’adesione è risultato sconfitto, e ha dato anche luogo ad una rovinosa ritirata. Ma non così la strategia americana condotta dapprima attraverso i rounds commerciali del GATT, e poi culminata nella creazione del WTO, e opportunamente finalizzata a via via liberalizzare a livello mondiale tutto ciò che gli europei erano appena riusciti a mettere in comune, svuotandone il significato politico. Solo la creazione dell’Euro, all’inizio del nuovo secolo – e in misura assai minore, ma non per questo non significativa, il programma Erasmus – ridaranno l’immagine di un processo nel suo farsi, anche se ad un costo molto alto per i membri economicamente più deboli.
Nel frattempo, però, le istituzioni di Bruxelles si sono sempre più sclerotizzate e sono diventate sempre più dominate da una casta di funzionari lottizzata tra gruppi d’interesse costituito i cui centri di controllo sono nei due paesi egemoni, la Germania e la Francia. Quei burocrati il cui atteggiamento che l’Europa sia “cosa loro” di cui nessun altro avrebbe titolo di occuparsi, e il cui potere impedisce che il Parlamento abbia vera capacità di iniziativa legislativa, e sia ridotto al ruolo di una semplice chambre d’enregistrement di decisioni altrui.
Vale a dire proprio quello che rendeva letteralmente furioso il più nobile dei padri del federalismo europeo, Altiero Spinelli, e che lo spinse nel decennio a cavallo tra gli anni ’70 e gli ‘80 a farsi eleggere al Parlamento di Strasburgo, per tentare di portarvi un soffio di creatività politica e di ispirazione ideale. Una vera diminutio per un uomo come lui, totalmente disadatto alle combines tipiche dei corridoi assembleari: un idealista che – pur non essendo battezzato. – era animato soprattutto da un fortissimo sentimento di repulsione per i nazionalismi e per gli orrendi crimini tuttora commessi in loro nome.
Un’offerta poverissima
Il sistema si dimostrò, anche nei confronti dell’iniziativa di Altiero Spinelli, impenetrabile ed irriformabile. E ciò contribuisce a spiegare perché il Parlamento Europeo non possa, a coloro che hanno nella loro vita avuto l’esperienza dell’ispirazione spinelliana, non apparire se non poco più che la fictio di un organo politico-legislativo. E ne vedono la controprova nella estrema povertà dall’offerta di proposte avanzate dalle liste per le quali gli Europei saranno chiamati a votare nelle prossime ore.
Qualcuno penserà che questo giudizio sul Parlamento Europeo e sul mastodontico processo elettorale organizzato per sceglierne i membri, sia un giudizio troppo severo: dovuto al l’errore personalmente commesso in passato, di avere – come la maggioranza dei miei compatrioti – riposto troppe speranza nel processo di riconciliazione e di collaborazione tra i popoli che si sono così sanguinosamente affrontati in due atroci guerre nel corso di mezzo secolo. Ma è un fatto impossibile da negare che molti oggi mi trovino nella situazione di non sapere per chi votare. E che tanti stiano valutando la possibilità di non recarsi neanche ai seggi elettorali. Un comportamento che, quando supera certi limiti quantitativi, finisce per assumere significati politici.
Contemporaneamente, c’è da chiedersi come ciò possa essere possibile: come si sia arrivati a tanto. Non c’é dubbio, le delusioni giovanili spesso fanno cambiare profondamente e anche in maniera ingiusta l’opinione sulla realtà, quando la si osserva con gli occhi della maturità. Ma per molti della mia generazione l’attaccamento all’obiettivo dell’Europa unita e pacificata non è stata – o non è stata soltanto –una passione di gioventù. A contrario, è stata spesso il frutto di riflessioni e di convincimenti elaborati egli anni della piena maturità.
Avevo infatti esattamente cinquant’anni quando mi impegnai in una avventura che sembrava a prima vista assai azzardata, ma che ebbe invece risultati notevoli sul piano operativo. Diedi allora vita, insieme ad un insigne storico e parlamentare europeo, Rosario Romeo, a quella che oggi si chiamerebbe un start up editoriale, e incominciai a pubblicare una rivista intitolata ’The European Journal of Intenational Affairs”: un trimestrale che presentasse, con la collaborazione di studiosi e protagonisti politici dei principali paesi membri. la visione dall’Europa sulla realtà e sulle vicende mondiali(CLICCA QUI )
Una start up per l’Europa
Non era un progetto accademico. Aveva una dichiarata finalità politica, un chiaro orientamento europeista. E l’idea di base era quella che una vera intesa – anche soltanto tra le nazioni di quel petit cap d’Asie che erano i Sei membri originari – sarebbe stata pressoché impossibile da trovare finché i loro rappresentanti e i loro studiosi avessero discusso solo di come conciliare i propri interessi e le proprie aspirazioni. E ciò senza neanche prendere in considerazione l’Inghilterra. La quale peraltro nascondeva assai male che questi fossero, nel suo caso, diversi dagli obiettivi dei membri originali. Tanto che qualcuno era convinto fossero più orientati al sabotaggio che alla costruzione.
Finché insomma si fosse parlato dei problemi interni, e cercato di equilibrare le diverse convenienze, i particolarismi – eravamo convinti – avrebbero sempre avuto il sopravvento sull’obiettivo della costruzione europea. Che era invece solo guardando al mondo intero, agli straordinari cambiamenti in atto nel mondo esterno al Vecchio Continente, che gli Europei avrebbero potuto scoprire di avere un enorme quantità di interessi in comune e, sotto molti aspetti di essere tutti sulla stessa barca. E che questa presa d’atto della loro condizione nel mondo, della loro debolezza e della necessità di riaffermare la loro presenza in una realtà internazionale che chiaramente evolveva verso un equilibrio Asia centrica era la conditio sine qua non di una nuova unità di pensiero e di azione.
Il mio partner in questa avventura, Rosario Romeo, mori fulminato da un infarto a metà Marzo del 1987 e – nel primo numero della rivista che egli aveva contribuito a concepire – ebbe diritto solo ad una pagina commemorativa. Ma la rivista nacque comunque, nell’estate successiva, smentendo la gongolante previsione di quelli come Ernesto Galli Della Loggia, secondo il quale “non se ne sarebbe fatto più nulla”. Evidentemente, il mio convincimento europeista – ne debbo prendere atto ancora oggi – era così forte che, rimasto senza il mio partner intellettuale (e che partner!) nella start up avviai la pubblicazione e la distribuzione della rivista, a spese mie. Spese che, tra stampa e distribuzione, solo per il primo numero ammontarono a 42 milioni di lire. E milioni nel 1988 erano moltissimi soldi.
Ma già prima del secondo numero avevo trovato un finanziatore pronto a prendere una quota della start up. E le soddisfazioni non furono solo in campo finanziario: il primo numero era uscito da quattordici giorni quando un uomo politico tedesco – nessun altri che Helmut Schmidt – fece pervenire alla redazione un assegno da 32 dollari, il prezzo di un abbonamento (Perché questa rivista tanto europea doveva servirsi della universale moneta americana per farsi pagare dai suoi abbonati). E così venni a conoscenza del suo interesse a che il Journal andasse avanti. E anche della sua fiducia che ciò sarebbe probabilmente avvenuto.
Ambiguità dell’europeismo
L’importanza che questa rivista avesse successo mi apparve confermata dallo sguardo di odio che vidi negli occhi di coloro sui quali, di norma, sarebbe dovuto ricadere il compito istituzionale di crearla e di tenerla in vita. Ma che non l’avevano mai fatto. Ad esempio, la piccola truppa (che disponeva anche di un possibile leader, intellettuale, Stefano Silvestri) che costituiva allora l’Istituto Affari Internazionali di Roma, il cui fondatore era stato lo stesso Spinelli, col sostegno della Ford Foundation. Dal loro evidente rancore ebbi così la misura del vuoto politico che il mio lavoro stava tentando di coprire. E la sensazione di aver dato vita ad uno strumento che poteva essere di una certa utilità per una causa nobile, come quella europea.
Ma l’accoglienza fu ancora più ostile anche a Bruxelles. Dove l’ambasciatore tedesco a Roma, Konrad Seitz (uno studioso profondo conoscitore del Giappone, dell’India e della Cina, dove aveva anche rappresentato al massimo livello la Repubblica di Bonn) mi accompagnò personalmente ad incontrare i due Commissari tedeschi, per ottenere un qualche sostegno ai suoi ambiziosi piani di promozione della rivista. Ed effettivamente, dai due Commissari ttenemmo tutta la soddisfazione possibile; ma gIà fuori dalla loro porta avvertimmo che tutti ci consideravano degli intrusi che venivano a ficcare il naso in un territorio – l’Europa e il suo avvenire – che era “cosa loro”: terra esclusiva dì coltivazione e raccolto di burocrati della UE, spesso figli di burocrati della CEE.
Più singolare fu la reazione dell’Ambasciata di Francia, che mi fece sapere che l’Ambasciatore avrebbe desiderato parlarmi. Il carattere formale della comunicazione sulle prime mi sorprese, perché Jacques Andréani era un intellettuale che avevo incontrato molte volte nelle più varie occasioni. Ma non appena entrai nel suo ufficio, un gigantesco salone di Palazzo Farnese in cui una ancor più gigantesca scrivania lo faceva apparire piccolo piccolo, mi fu chiaro che egli era controvoglia latore di un messaggio non suo.
Dopo alcuni convenevoli in cui mi parve un po’ imbarazzato, mi chiese infatti se non fosse possibile che, anziché essere totalmente in Inglese – la lingua che peraltro già allora era diventata dominante nelle istituzioni europee – l’European Journal non potesse cambiare formula, e pubblicare ciascun articolo nella lingua dell’autore. Gli feci rilevare che ciò sarebbe stato disastroso dal punto di vista delle vendite, e che la confusione delle lingue era – biblicamente parlando – una forma di punizione divina, ed egli non poté non convenire. Ma purtroppo non poté invece convenire sulla proposta che – da appassionato cultore della lingua di Molière– immediatamente gli feci: che se una qualche istituzione culturale me ne avesse dati i mezzi, sarei stato ben felice di dar vita al un’edizione francese della rivista, per la quale gli ero grato di aver manifestato tanto interesse. E la cosa ovviamente finì li.
Anni cruciali
La vita della rivista, compreso un lungo lavoro di preparazione, prese cinque faticosi anni della mia vita. Anni che coincisero con una fase estremamente movimentata e con importanti trasformazioni dell’ordine mondiale. Nel corso della quale vennero pubblicati 12 numeri di 164 pagine ciascuno, tra quello datato Estate 1988 e quello della Primavera del 1992. Il primo dei quali pubblicava, tra l’altro, una lunga conversazione con Lord Roy Jenkins sull’evidente logoramento del thatcherismo, ed una sezione – detta “Diario a più voci” – composta di sei articoli, di autori di sei diverse nazionalità europee, su quella che appariva allora come la “Gorbachev’s dubious reform”.
E l’ultimo, il numero 2 del 1992, oltre a due articolate analisi del fenomeno delle migrazioni dall’Europa dell’Est a quella dell’Ovest, riportava cinque diverse voci europee sulle contrapposizioni e le rivalità militari e religiose in Medio Oriente, dopo la prima Guerra del Golfo. Dodici numeri in cui perciò, che coprirono un periodo di totale trasformazione del quadro internazionale e nei rapporti di forza che avevano la Guerra Fredda in tutto il quarantennio precedente. Cui fu inevitabile aggiungere una dolorosa riflessione su come all’Europa fosse toccato, in quell’eccezionale frangente, solo un piccolo “posto all’ombra”.
Eppure dopo cinque anni di lavoro intensissimo mi dovetti arrendere. Troppo spesso mi toccava di dover scartare e respingere con la massima “diplomazia” possibile gli articoli di autorevoli personaggi. Testi da cui involontariamente emergeva sempre soltanto la stessa cosa: la preoccupazione che il proprio paese contasse di più in Europa. Senza che quasi mai dal materiale che mi veniva offerto trasparisse qualche afflato di universalità o qualche consapevolezza di una unità di destino.
La cosa peggiorò con la crisi jugoslava, dove riemersero fantasmi del passato come gli ustascia filonazisti, e quando il comportamento della Germania ufficiale indusse Helmuth Kohl – che voleva una Germania europea – a licenziare il Ministro degli Esteri Hans-Dietrich Genscher. che chiaramente si ispirava all’idea opposta, quella di un’Europa germanica.
Uccidere la propria creatura
Trovare delle corrispondenze tra la realtà e gli obiettivi della rivista era una battaglia continua, Che mi portò a disperare della volontà degli Europei di essere mai parte non solo di un unico soggetto politico collettivo, ma neanche di una elastica struttura di coordinamento per la tutela degli interessi comuni.
Ciò mi spinse, più tardi, perfino a proporre una riforma elettorale per il Parlamento Europeo, una diversa maniera di guardare al corpo elettorale del continente che avrebbe potuto – e potrebbe tuttora – ringiovanire radicalmente la vecchia Europa. ancora tanto legata al suo passato di rivalità e di sangue. Ed anche in questa occasione ricevetti moltissimi complimenti, ma nessuno pensò mai che un tale fine potesse essere effettivamente perseguito ( Giuseppe Sacco, L’Europe à la Cour du Dauphin, in “Commentaire”, Paris, Printemps 2009).
L’esperienza fu insomma così progressivamente deludente che alla fine decisi di abbandonare l’impresa e di uccidere la mia stessa creatura. E ciò pochi giorni dopo che il governo giapponese mi aveva invitato a Tokyo per un’intervista esclusiva con il Primo Ministro Nakasone, che a quella epoca era un personaggio estremamente prominente nella realtà internazionale., così come il Giappone – in crescita e trasformazione sempre più rapide da vari decenni, veniva visto quasi alla pari di come è oggi vista la Cina di Xi Jinping. Come un soggetto che poteva turbare l’ordine mondiale e forse addirittura minacciare l’egemonia degli Stati Uniti.
Ovviamente, mi recai personalmente a Tokyo per raccogliere l’intervista, in esclusiva mondiale, destinata ad essere pubblicata sul numero 13 del Journal. Numero che però non apparve mai.
E non apparve perché una sera in una trattoria di Trastevere, sul mio naturale ottimismo non ebbe il sopravvento la mia insoddisfazione per la scarsa sincerità di tanti personaggi, e di tante personalità europee, che si dichiaravano europeisti, e non lo erano. Ero a cena – assieme alle rispettive compagne di vita – con il mio primo e originario partner, quello che mi aveva sostenuto sin dal secondo numero; un n aspirante accademico fallito che traeva una evidente soddisfazione dalla possibilità di avanzare continue critiche e – n quanto azionista di maggioranza – di dare consigli e direttive ad un accademico vero. Critiche, consigli e direttive qualche rara volta anche utili, ma che ovviamente, nella maggior parte dei casi, facevo solo finta di prendere in considerazione.
Egli, però, aveva via via acquisito una quota sempre più ampia della srl editoriale che aveva fatto seguito alla originaria start up, e quella sera, avvertendo – ma non misurando sino in fondo la mia delusione, pensò di fare un buon affare proponendomi una cifra non indifferente per il mio piccolo 3,5% residuo della proprietà. E quando, più per malumore che peraltro, dissi di si, egli si affrettò a farmi firmare un impegno scribacchiato sul foglio di carta che in quella semplice trattoria fungeva da tovaglia. Chiaramente, pensava di avermi preso in ostaggio, di avermi ormai reso suo prigioniero. Per me – che nel frattempo avevo aggiunto alla mia Cattedra alla Luiss, un insegnamento a SciencesPo, a Parigi, culturalmente assai più prestigioso e impegnativo, anche perché si estendeva su 23 settimane l’anno– fu invece una liberazione. Ma la rivista non uscì mai più.
Il personale e il politico
Fu probabilmente un errore da entrambe le parti. E forse sarebbe stato logico che, al momento cruciale, ci fosse un intervento moderatore di almeno una delle due compagne di vita che erano sedute a quel tavolo; e che erano entrambe implicate, con responsabilità tutt’altro che secondarie, nel mondo del giornalismo e dell’editoria, anche a livello internazionale. Ma così non fu. Perché quelli erano gli anni in cui molto di più di quanto non trionfasse – e non avesse mai trionfato – l’europeismo, trionfava il femminismo. E troppi mariti, o partners maschili, tolleravano che il loro affetto coniugale offrisse alle proprie donne l’occasione per ottenere facilmente, margini di autonomia e di successo che erano invece assai più difficili conquistare fuori dall’ambito familiare.
Aspetti personali a parte, la sospensione delle pubblicazioni fu però una perdita anche sotto un altro profilo. Fu la perdita di uno strumento difficile da sostituire da parte di chi avesse a cuore la causa europeista. E me ne accorsi chiaramente il giorno in cui un diplomatico tedesco di notevole rilievo, Roland Wegener, mi presentò l’ipotesi di un mio trasferimento a Berlino con tutta la redazione. Era un’offerta assai generosa, motivata chiaramente dal fatto che la ritrovata capitale della Germania, dove si stavano trasferendo tutte le istituzioni, faceva invece fatica a far ritornare (a parte le stazioni televisive) la sede delle attività culturali.
Ma era, per parafrasare il Padrino, era un’offerta che non si potevo che rifiutare.
Uno dei punti di forza dell’European Journal of International Affairs, era di essere stato sempre, fin dal primo giorno, considerato come una voce dell’Europa, indipendente dagli interessi o dalle ambizioni di ciascuno dei paesi membri. E proprio ciò faceva che redazione non si potesse trasferire a Berlino. Perché il Journal, come qualsiasi pubblicazione, una volta spostata la redazione nella Germania che si riunificava mentre le altre nazioni europee erano in preda a tendenze centrifughe (con Urss, Jugoslavia, Cecoslovacchia che volavano in pezzi, e rivendicazioni scozzesi, nordirlandesi, corse, catalane, padane) avrebbe sarebbe stato immediatamente identificato come un German Journal sotto mentite spoglie. E così sarebbe stato con uno spostamento della sede redazionale Parigi, Londra, Budapest o Stoccolma.
Solo l’Italia faceva eccezione. La base naturale del Journal era in Italia, e non poteva essere differentemente. Perché – anche se quelli erano gli straordinari anni di Craxi – all’estero pochi se ne erano accorti, e l’Italia era ancora vista dall’esterno come un paese che non aveva una politica estera.
Guardando indietro. E al futuro
Guardando, anche alla luce delle vicende e delle guerre di oggi, nonché delle conseguenze che hanno – o rischiano di avere – per le grandi nazioni storiche dell’Europa, i vaneggiamenti di personaggi il cui ruolo sarebbe quello di obbedire tacendo, come l‘inverosimile Stoltenberg, sempre più chiaro appare quanto fosse vicina alla realtà quella frase che pronunciai spontaneamente parlando con il nipote di Molotov. Sempre più mi accorgo che delle mie labbra era spontaneamente sgorgata una verità che sino a quel momento avevo tentato di reprimere. Mentre la Russia soffre per una tragedia in cui potrebbe forse anche essere in gioco il suo destino storico; l’Europa vive un’ambigua pace che mette chiaramente in luce come essa non sia altro che una coalizione di paesi sconfitti. Di paesi sempre più sconfitti. La cui debellatio è messa in evidenza proprio dalle gesticolazioni e dai tentativi che si fanno nei vari paesi membri per evitare che ciò appaia con la chiarezza che la contraddistingue. Che è quella di una lampadina da mille candele.
Ma questo significa davvero che viviamo in una inesorabile congiuntura storica in cui tutto è avverso al progetto europeo? Può darsi, ma non credo che si disponga degli elementi per dire che sia certo. In una congiuntura storica determinata, come quella presente, è infatti possibile che l’offerta politica manchi semplicemente perché non ci sono vie di uscita al destino del nostro continente. Oppure perché trovare una via d’uscita implicherebbe una trasformazione estremamente profonda delle abitudini, della visione del mondo, e degli attuali modi di far politica. Molto profonda, anche se non impossibile.
Giuseppe Sacco