Uno sciopero operaio: Credo che l’incontro in Michigan con gli operai dell’industria automobilistica e del settore metalmeccanico in sciopero possa considerarsi per i due rivali alla presidenza degli Stati Uniti come l’inizio della campagna elettorale.
Biden è stato il primo presidente a presentarsi di fronte ad un picchetto di operai in sciopero. Portava in testa il berretto nero con sopra le iniziali del sindacato dei lavoratori del settore automobilistico: le lettere erano UAW, che sta per United Auto Workers. Invitato dal sindacato, il presidente si è recato all’incontro anche perché era a conoscenza che il suo rivale avrebbe fatto altrettanto, presentandosi però a tutti quegli operai non iscritti al sindacato. Trump dichiarava apertamente di non aver fiducia nei sindacati. Questo può farlo, dato che per essere eletto non gli è tanto necessario vincere il voto popolare, quanto intascare il consenso della maggioranza dei grandi elettori.
Inutile dire che i sindacati non amano affatto Trump e non vogliono rivederlo alla Casa Bianca. Sanno che nel 2016 egli aveva potuto conquistare il voto della classe operaia che si sentiva, se non tradita, almeno abbandonata dal Partito Democratico. Quest’ultimo infatti andava volgendosi in direzioni diverse in rappresentanza dei giovani, degli ambientalisti, delle classi agiate urbane, delle varie minoranze difendendo inoltre i trattati di libero scambio che gli avevano portato anche il voto di Wall Street e del mondo della finanza.
Gli operai della Ford, General Motors e Stellantis ritengono che queste grandi società abbiano realizzato dei super profitti e che i dirigenti abbiano degli stipendi troppo elevati. Anche loro dunque chiedono una fetta della torta: il sindacato spinge per un aumento salariale del 30% da spalmarsi su 3 anni. L’industria ribatte proponendo un 18-20%.
Il Michigan – va ricordato – è uno Stato chiave per l’elezione del Presidente data la sua componente industriale e la sua classe media. Si tratta di due elementi della società dalla marcata sensibilità politica e nei quali sia Biden che Trump possono raccogliere consensi. Se per tradizione Biden ed il Partito Democratico sono legati al sindacato, da quando Trump ha messo piede in politica egli invece ha scelto di puntare su quella componente operaia non sindacalizzata.
Da politico di lungo corso, il presidente Biden sa bene che uno Stato come il Michigan gli è indispensabile per la rielezione, così come lo è l’appoggio del sindacato. A saper questo è pure Trump che, non a caso, ha disertato il dibattito televisivo organizzato in California dalla rete conservatrice Fox e nel quale gli altri candidati repubblicani si misuravano tra loro illustrando al pubblico i propri programmi politici. Che Trump non vi si sia recato è anche l’evidente dimostrazione della poca stima verso i suoi rivali.
In questi ultimi anni il consenso tra gli operai per il Partito Democratico si è indebolito: a ricordarlo, lo scarso entusiasmo suscitato dalla Clinton nel corso della sua campagna elettorale. Per una frase poco fortunata e considerata elitaria, non le è riuscito di raccogliere più del 30% del voto operaio. Stessa disappunto ha creato Obama per via della sua decisione di chiudere le miniere del Kentucky.
Sullo sfondo, un Paese diviso e certamente insoddisfatto. Al momento si profila un duello Biden-Trump, ma si è ancora distanti sia dalle primarie repubblicane che dalla Convenzione democratica. In attesa di futuri eventi, una serie di sondaggi danno un 44% dei consensi ad ambedue i contendenti.
Dibattito sull’età dei candidati: Ad alimentare questo scontento, un dibattito sull’età dei candidati sorto intorno alla metà del mese di Settembre: sia il presidente Biden che il suo rivale Trump sono considerati troppo anziani per il compito che dovranno affrontare. Un articolo apparso sul Washington Post sottolinea come per il 79% degli americani Biden sia in età troppo avanzata per ricandidarsi.
Con i suoi 80 anni viene infatti visto come fragile, traballante e malconcio. Da alcuni amici mi è stato descritto come inabile ed in uno stato fisico e mentale non adeguato al compito. Particolare sconcerto ha suscitato il suo sbarco in Vietnam, dove è apparso stanco, invecchiato e confuso con addirittura difficoltà a tenere il filo del discorso. Lo stesso Trump, di tre anni più giovane e ben più aggressivo, è anche lui ritenuto in forma non eccellente ed in sovrappeso.
Per il Partito Democratico il problema è che al momento non vi è nessuno che possa sostituirlo. Resta la sua vice Kamala Harris che però non è certo popolare. Qualcuno potrebbe pensare a Bernie Sanders, ma anche lui è avanti con gli anni, o al senatore del Massachusetts Elizabeth Warren, che di anni ne ha già 74. Entrambi sono comunque considerati troppo divisivi per sperare di rappresentare il partito e candidarsi. A farla breve, non vi è nessun altro al momento capace di tenere insieme tutte quelle componenti democratiche che vanno dalla giovane e radicale Alexandria Ocasio-Cortez ai notabili conservatori degli Stati del Sud. L’unico in grado di compattare il partito e portarlo alle elezioni resta dunque ancora Biden.
Questo problema anagrafico abbraccia l’intera classe politica dato che l’età media è di 65 anni al Senato e di 58 alla Camera. Nancy Pelosi, decano della delegazione dello Stato della California al Congresso, ha lei stessa 83 anni e mostra tutte le intenzioni di volersi ricandidare. La Feinstein è appena morta che aveva 90 anni, mentre Mitch McConnell, presidente del Senato e alfiere di Trump, ne ha 81. Di anni il senatore Mitt Romney ne ha 76 e per questo motivo ha annunciato di non ripresentarsi per il suo seggio. Ha poi chiesto sia a Biden che a Trump di fare altrettanto e mettersi da parte.
Di fronte a questa gerontocrazia, un sondaggio ha evidenziato che il 77% degli americani chiede un limite di età per candidarsi alla Casa Bianca. L’esperienza delle primarie e la corsa per la presidenza che si svolge in tutti i 50 Stati dell’Unione è un processo lungo, faticoso e persino massacrante: la domanda è se i due candidati ed accesi rivali saranno in grado di reggere il ritmo e l’intensità di questa competizione.
Come visto, Biden è un candidato anziano che non infiamma gli animi. Nel caso non dovesse spuntare un’alternativa credibile, molti saranno gli elettori che voteranno per lui pur di non vedere più Trump alla Casa Bianca. Il presidente sa bene di avere tutti i suoi anni e che qualcosa potrebbe anche succedergli. A prenderne il posto sarebbe il suo vice, ma ad oggi la Harris si è rivelata una delusione e dai sondaggi non risulta particolarmente gradita. Il Paese si interroga sapendo bene che il voto delle primarie serve a scegliere il candidato più popolare. Trump indubbiamente lo è per la base del Partito Repubblicano. Ha infatti un suo zoccolo duro che nulla sembra scalfire.
In assenza di sorprese, le prossime elezioni più che una contesa tra i due candidati saranno un referendum su Trump. A rendersene conto è lui stesso e non è certo per caso che avverte gli Evangelici e tutti quei radicali religiosi che lo appoggiano di non esagerare su temi come l’aborto: se le elezioni dovessero trasformarsi in una consultazione su quest’ultimo, la vittoria andrebbe senza dubbio a Biden.
I rivali di Trump: Gli altri candidati repubblicani per il momento non danno l’impressione di avere la minima possibilità di decollare. Quello che sembrava il più pericoloso, il governatore della Florida Ron de Santis, nei sondaggi è indietro di 42 punti su Trump. A rendergli la vita difficile, una serie di leggi troppo estreme ed il fatto di provenire dalla Florida, Stato che ha una reputazione tutta sua.
Chris Christie, ex-governatore del New Jersey, così come Nikki Haley, dal passato di governatore della Carolina del Sud e di Rappresentante alle Nazioni Unite, l’imprenditore e giornalista Vivek Ramaswamy, l’ex-vicepresidente di Trump Mike Pence, Asa Hutchinson, ex-governatore dell’Arkansas, il senatore Tim Scott e Doug Burgum, ex-governatore del Nord Dakota non raggiungono neppure da lontano i numeri di Trump, che naviga intorno al 54%: De Santis è al 13%, Christie al 5% e tutti gli altri insieme arrivano appena al 9%. Nel corso del dibattito televisivo hanno tutti insieme criticato l’assenza di Trump. Nessuno lo ha però attaccato riguardo le sue faccende legali per non dar l’impressione di favorire i Democratici.
De Santis, che fino a poco fa sembrava essere il più accreditato tra i rivali di Trump, viene attualmente descritto come privo di carisma. Gli altri candidati dovranno ancora definirsi meglio, ma è certo che non potranno andar bene alla base del partito, profondamente attaccata a Trump. Di quest’ultimo continua a piacere la sua immagine di uomo di successo mentre, in seno ad una base repubblicana radicalizzata, attirano tutt’ora sia il suo nazionalismo che le sue tendenze isolazioniste: sono i seguaci della America First e del MAGA (Make America Great Again).
Nulla sembra dunque scalfire Trump e prima delle elezioni è difficile dire cosa cambierà.Tutto resta aperto ed il percorso è ancora lungo. Ognuna di queste cose contribuisce a dividere una società che farebbe volentieri a meno del ripetersi del duello del 2020.
Le difficoltà dei due rivali: Malgrado queste incertezze e questi problemi, quella americana resta tutto sommato una democrazia viva che alla fine una risposta la trova sempre. Il bilancio di Biden non è stato tutto sommato negativo e ha tutt’ora possibilità di farsi rieleggere battendo Trump. Resta il fatto che la maggioranza dell’elettorato non aspira ad assistere nuovamente ad un duello tra questi due uomini. Quali sono le alternative ci si domanda? La situazione è certo complicata, così come sarebbe complicato limitare il numero dei mandati al Congresso e porre un tetto all’età dei candidati.
Tra le difficoltà di Biden, il caso di suo figlio Hunter nel mirino dei seguaci di Trump. È però qualcosa che non rientra nei princìpi della democrazia americana. La scelta di Trump di attaccarlo attraverso il figlio è qualcosa che non si dovrebbe fare: si tratta di un metodo mafioso di agire. Hunter Biden è accusato di malaffare con gli ucraini e di possesso illegale di arma da fuoco. Con queste due accuse è stato chiesto l’impeachment del presidente.
Continuano intanto i problemi legali di Trump. Recentemente è stato accusato di frode finanziaria per aver mentito, gonfiandoli, sugli attivi della sua organizzazione. Questo gli avrebbe consentito di pagare interessi più bassi sui prestiti che richiedeva. Nella faccenda, implicati anche due dei suoi figli. Potrebbe essere costretto a pagare qualcosa come 250 milioni di dollari in compensazioni, con conseguenze sulle sue attività. I sondaggi comunque non calano e lui continua a monopolizzare l’attenzione del partito e conservare la fedeltà della sua frangia più radicale.
In questo momento Trump è intanto in tribunale con almeno quattro processi in corso ed un calendario giudiziario ricco in udienze.
La sfida del bilancio dello Stato: Ad aumentare le incertezze, la contesa sul finanziamento del bilancio dello Stato. Alla chiusura di Settembre lo speaker della Camera Kevin McCarthy annunciava un accordo per il finanziamento temporaneo del bilancio dello Stato al fine di evitare il cosiddetto “shutdown”, l’interruzione delle funzioni di tutta la pubblica amministrazione. L’accordo è passato con 335 voti a favore e 61 contrari.
Un accordo successivo come annunciato dallo speaker del senato, il repubblicano Mitch McConnell e dal democratico Charles Schumer, ha fatto si che le due camere si accordassero per prolungare di quarantacinque giorni un finanziamento allo stato, in attesa che il congresso possa aggiungere un accordo definitivo. In questo caso, a render più difficili le cose è stato un appello del presidente Biden di aggiungere al bilancio un aiuto di 24 miliardi di dollari da destinare all’Ucraina.
Senza questo accordo dell’ultimo momento un milione e mezzo di impiegati statali rischiavano di rimanere senza stipendio, con la conseguente chiusura dell’amministrazione federale.
Questi eventi non sono che un riflesso dei conflitti che andranno a caratterizzare la campagna elettorale e che restano comunque un esempio della vivacità della democrazia Americana. In questo particolare caso però vi vediamo quel che è di meno virtuoso, perché ad esser colpito è il salario di migliaia di dipendenti dello stato: è al governo infatti che spetta assicurare quei mezzi necessari per consentire agli apparati pubblici. Le componenti più radicali fra i grandi del partito Repubblicano questo lo sanno bene e giocano al ricatto per attaccare l’amministrazione attraverso lo strumento degli aiuti all’Ucraina. La loro preferenza andrebbe nel destinare fondi per gestire il flusso degli immigranti provenienti dal Sud.
Il governo di Kiev potrà comunque beneficiare di quegli aiuti finanziari, militari ed umanitari che gli erano stati destinati in quanto già approvati dal Congresso. In assenza di una decisione definitiva riguardo il bilancio, nessun altro aiuto è previsto. Inutile dire che per l’Ucraina questi aiuti sono di fondamentale importanza. In una riunione a Kiev, gli europei hanno garantito aiuti incondizionati che da soli però non sono sufficienti e che solitamente vengono poi consegnati in ritardo. Senza i contributi della Gran Bretagna e, soprattutto degli Stati Uniti, le forze armate Ucraine non sarebbero in grado di resistere all’offensiva di Mosca.
Matt Gaetz, deputato repubblicano della Florida e convinto sostenitore della politica di estrema destra dell’ex Presidente Trump, ha lanciato successivamente un attacco contro il suo collega McCarthy, reo di aver portato a termine le trattative per giungere ad un accordo con i rivali democratici sulla redazione di un bilancio provvisorio che consentisse di evitare il blocco delle istituzioni. Questo non glielo ha perdonato. L’episodio è significativo in quanto per la prima volta qualcuno è riuscito a costringere lo speaker alle dimissioni. McCarthy ha lasciato il suo posto dicendo che non vi si ricandiderà e dichiarandosi fiero di aver servito il popolo americano e gli interessi della nazione.
Questa situazione inaugura adesso un periodo di incertezza per la Camera e mostra come il partito repubblicano sia tuttora alla ricerca di se stesso, non essendo ancora riuscito a ristabilirsi dopo il trauma del 2016 che ha visto Trump salire alla Casa Bianca. In questa circostanza, va comunque detto, sono stati gli stessi democratici a sfruttare questa opportunità per giocare un tiro mancino ai loro rivali, il cui speaker è stato travolto da un attacco partito dal suo stesso campo per aver negoziato un bilancio provvisorio ed evitato la paralisi istituzionale. Avuta la notizia, è presto intervenuto lo stesso presidente Biden augurandosi un’elezione rapida del prossimo speaker.
Un clima molto teso: messo di fronte a questi episodi, il presidente Biden lancia un grido di allarme per il clima sempre più inquinato della vita politica Americana e della sensazione di disordine che ne deriva. In questo caso un pugno di repubblicani insieme ad un certo numero democratici hanno provocato una crisi dalle implicazioni piuttosto gravi. Ora resta da attendere chi prenderà il posto di McCarthy come speaker della Camera. Si parlava del repubblicano Jim Jordan, ex-senatore dell’Ohio ed uno degli elementi più conservatori tra i ranghi del Partito Repubblicano.
Egli è stato uno dei fondatori del cosiddetto Freedom Caucus, nato nel Gennaio del 2015 anche per opera dei membri del movimento Tea Party. Esso rappresenta l’ala più conservatrice del partito ed il gruppo più a destra della Conferenza Repubblicana della Camera. Similmente a tutti gli ultra conservatori di quell’area è dal punto di vista fiscale del tutto contrario ad incrementare la spesa pubblica oltre ad essere favorevole ad una decentralizzazione del potere all’interno della Camera. In seguito ha anche offerto la sua completa lealtà a Trump.
La figura di Jordan era vista dalla Casa Bianca con estrema preoccupazione. Non avendo ricevuto i 217 voti necessari la sua candidatura è però appena naufragata alla terza votazione: per via delle divisioni all’interno del suo partito 25 deputati moderati gli hanno votato contro. Non è adesso chiaro chi verrà scelto al suo posto. La Camera a questo punto si trova un’altra volta nell’impossibilità di votare nuove leggi.
Patrick McHenry, rappresentante dello Stato della Carolina del Nord, aveva assunto in via temporanea le funzioni di speaker. Una proposta all’interno del suo partito avrebbe voluto estendere la carica fino al 3 Gennaio per consentire il funzionamento della Camera, ma questa è stata esclusa in una riunione molto combattuta tra i Repubblicani, attualmente sempre più divisi al loro interno.
Ad essere molto teso è anche il clima sociale caratterizzato da un aumento delle proteste e degli scioperi. Si parla di un 65% in più dall’anno scorso: questo risveglio delle classi lavoratrici si è manifestato con 312 scioperi che hanno visto la partecipazione di più 450.000 persone. L’opinione pubblica, generalmente parlando, è in larga parte solidale con i sindacati.
Particolarmente sentito il malessere del settore sanitario, investito dal più grande sciopero mai avuto in precedenza. Oltre 75.000 lavoratori della Kaiser Permanente sono scesi in strada richiedendo stipendi più adeguati, migliori condizioni di lavoro ed anche un trattamento più civile dei pazienti. Si tratta di un importante organizzazione che possiede una catena di 40 ospedali sparsi sul territorio americano. Oltre un quarto dei suoi dipendenti afferma di trovarsi in condizioni di lavoro degradato. In risposta è stato loro promesso un aumento degli stipendi e l’assunzione di più personale.
Continua lo sciopero degli operai del settore automobilistico e degli attori. Un accordo è stato invece raggiunto per la categoria degli sceneggiatori. Lo stesso può dirsi per i piloti della American Airlines, i portuali della costa Occidentale, i camionisti della ditta di spedizioni Ups e la categoria degli autotrasportatori. Tutti questi lavoratori erano sindacalizzati. Un aspetto interessante che riguarda gli Stati Uniti è che solo un lavoratore su dieci può dirsi rappresentato da un sindacato. Questi lavoratori sono stati in media premiati più di quelli sindacalizzati e senza bisogno di scioperi.
A far la differenza è stata la penuria di lavoratori con le qualifiche richieste e la difficoltà a trovare manodopera per le mansioni più usuranti e faticose. In molti settori, va aggiunto, l’offerta di lavoro supera il numero dei disoccupati. Adesso che la classe operaia torna a far sentire la propria voce, emerge anche un crescente sostegno ai sindacati che li rende più potenti in quanto considerati più necessari: non a caso, categorie di lavoratori considerate come non sindacalizzabili hanno creato una propria organizzazione come per Amazon, Apple e Starbucks. Lo stesso è accaduto con i lavoratori universitari, studenti e giovani medici.
A spiegare questa ripresa del sindacato sono stati gli effetti della pandemia, un’inflazione in crescita e quelle crescenti disuguaglianze che hanno minato il consenso neoliberista dimostrando che a se stesso il libero mercato non può curarsi delle singole persone.
E’ probabile che se ne vedessero l’alternativa, i fedelissimi di Trump con tutta probabilità diserterebbero il Partito Repubblicano. Domande anche sull’avvenire della Camera, che al momento risulta paralizzata e nell’impossibilità di procedere in alcun modo. Neppure ai tempi della Guerra Civile si era mai visto il verificarsi di qualcosa di simile. Al momento negli Stati Uniti regna il caos grazie soprattutto all’azione di un certo numero di integralisti trumpiani che non esitano a cogliere ogni occasione per provocare, ignorare le regole e fomentare il dissenso. Loro scopo è quello di seminare confusione e mostrare che nulla è più in grado di funzionare. Tutto ciò non fa che favorire il pluri-indagato Trump ed il presidente russo Putin.
In conclusione: All’alba della giornata del 7 ottobre, miliziani di Hamas invadevano a sorpresa lo Stato di Israele, unico Paese al mondo che sia stato in guerra contro tutti i suoi vicini. Non si è certo trattato di un attacco improvvisato rientrante negli schemi abituali dell’estremismo islamico: quelli del sacrificio e del martirio. Si è trattato invece a tutti gli effetti di un’operazione pianificata nei dettagli, coordinata nelle sue varie fasi e condotta con indubbia professionalità. Quest’azione ha costretto gli Stati Uniti a farsi coinvolgere nuovamente nello scenario mediorientale dopo le infelici esperienze irachene ed afghane.
Nel suo discorso di giovedì 19 ottobre, il Presidente Biden ha lasciato chiaramente intendere che Ucraina ed Israele hanno bisogno degli aiuti americani, proponendo uno stanziamento straordinario pari a 105 miliardi di dollari. Di questi, 61,4 sarebbero destinati a Kiev e 14,3 a Gerusalemme: si tratta per Washington di rispondere anche ad un conflitto più vasto destinato a contrastare quei paesi decisi a rimettere in causa la democrazia. Per favorire il consenso dei Repubblicani il resto della cifra è destinato a contrastare l’ingresso di migranti illegali. Tutto ciò però non potrà che dipendere dalla ripresa del funzionamento della Camera e non resta molto tempo.
I sondaggi danno Biden in vantaggio, ma il percorso è ancora lungo e come si vede dall’andamento degli altri partiti progressisti in Occidente, i Democratici stanno perdendo il sostegno popolare. Tutto ciò di cui si è scritto riguarda anche l’Europa ed il resto del mondo.
Edoardo Almagià