L’ involuzione formale e sostanziale del nostro sistema politico è inarrestabile, drammatica e pericolosa. Scivoliamo su un piano inclinato e nessuno è in grado di frenare la corsa al degrado. Purtroppo vengono al pettine, tutti in una volta, nodi che si sono aggrovigliati almeno dai primi vagiti della Seconda repubblica in qua. Paradossalmente, a riprova del fatto che la politica, al di là e al di sotto dell’ accavallarsi confuso degli eventi, ha pur sempre, sia pure ad un livello riposto e profondo, un inoppugnabile “ratio”, cosicché, se sono errati gli assiomi da cui un certo sistema ha preso le mosse, le conseguenze che  ne derivano non possono che essere nefaste.

Ad oggi, le cose stanno, grosso modo, così. La destra immemore di un antico proverbio – mai vendere la pelle dell’orso prima di averlo catturato – si sente già in saccoccia la vittoria e si preoccupa, soprattutto, di come regolare i rapporti interni, sulla scorta di un tale esito, supposto  come scontato. La Meloni è troppo accorta per non sapere che chi entra in Conclave da Papa, rischia seriamente di uscirne da Cardinale.

Ad ogni modo, fatte salve le quattro ossa di propaganda buttate là al popolino, la campagna elettorale sembra avviarsi verso un braccio di ferro tutto interno al polo e al “Vinceremo” che evoca l’ala fatidica del destino, che pare sostituirsi in un più prosaico “Abbiamo già vinto” che ha ben poco di eroico e di fatale. Vai a fidarti dei sondaggi. Rischi di cadere nel saragattiano “destino cinico e baro” del ‘48. Ma tant’è. Dall’ altra parte, dopo il “Draghi uber alles” di prammatica, fioriscono le autocandidature alla premiership, anzi i “front runner” che, detto così, fa tutto un altro effetto.

Senonché, vi sono almeno tre versanti su cui si mostra evidente la decomposizione del sistema. La destra non ha nulla da dire che non sia sostanzialmente regressivo e la sola motivazione da cui è mossa niente ha a che vedere con la realtà del Paese. Si tratta solo di vincere. Non a caso ha strappato il randello dalle mani di Conte per essere certa di poter abbattere il Governo, pur di cogliere l’attimo fatale, fuggente e forse irripetibile di un consenso progressivamente calante, ma ancora sufficiente.

La sinistra non ha altro da proclamare se non la parola d’ordine dell’inderogabile necessità d’impedire la vittoria della destra. Siamo, insomma, dall’una e dall’altra parte, alla sublimazione della dinamica propria del bipolarismo maggioritario che ci godiamo da troppo tempo. Ne consegue il ricatto del “voto utile”, quel “veleggiare su un vascello morto” dell’ ultima Thule, come la canta Guccini. Una terra che non c’è, se non discosta da ogni luogo conosciuto. Un ricatto indegno per un Paese civile, che viene catturato nella morsa di un complesso di colpa preventivo. Se dovesse andar male di chi la colpa se non di quelle formazioni che non hanno accettato di arruolarsi nella “legione straniera” organizzata dal PD o degli elettori renitenti alla leva?

Quel che più allibisce è la dinamica che accompagna la transizione dal “campo largo” al “campo aperto”.
Ovvero da un’alleanza ben strutturata e forte di un’ambizione politica – apprezzabile sul tema dell’Europa e della collocazione internazionale dell’Italia – ad una sorta di caravanserraglio dove tutti, purché non inclini alla destra, sono invitati a far massa. Ma – e qui sta la contraddizione – nel segno di un concorso “tecnico” per taluni ed ancor meglio, facendo di necessità virtu’, attraverso alleanze contratte solo per la costrizione imposta dalle legge elettorale, che si è fatto di tutto per non cambiare per tempo. Quindi, al di fuori di un riferimento politico assodato ed effettivamente condiviso. Il quale, tutt’al più, sta in capo al PD come capofila della cordata. Del resto, si aggiunge – e sembra sia sottinteso, fortunatamente – “questa legge non postula coalizioni con un simbolo”. A conferma del fatto che il PD è, di fatto, più che un partito, un aggregato elettorale.

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