Si potrebbe dire che la Francia ha provveduto da sé a “proporzionalizzare” il voto, a dispetto del suo sistema elettorale o, forse meglio, sfruttando quel tanto di elasticità che il “doppio turno” concede.
Quest’ultimo, infatti, permette di esprimere, in prima istanza, il proprio voto di “appartenenza” e, al secondo turno, di ribadire il proprio orientamento, calibrandolo in funzione del quadro complessivo fornito dal responso elettorale e in ragione della proposta di governo che, in quel determinato ventaglio di soluzioni possibili, s’intende privilegiare.
Ha il merito di sollecitare, promuovere ed avviare l’inevitabile mediazione necessaria a creare una coalizione, ancor prima che sia affidata alla cura delle forze politiche come tali, alla riflessione e alla libera determinazione di ciascun elettore, accrescendone il tasso di personale responsabilità e di coinvolgimento attivo. Esattamente il contrario di quel che avviene con il premierato e, in certi contesti molto plurali o frammentati, perfino meglio che non ricorrendo ad un voto proporzionale secco.
Una seconda e confortante considerazione – anche questa di ordine sistemico, a prescindere dalle posizioni in gioco – concerne la forza “geometrica” della politica che, in fin dei conti, spesso riesce a leggere per diritto ciò che è pur scritto su righe storte. In altri termini, per quanto le griglie normative disegnino un determinato alveo entro cui il consenso popolare deve scorrere ed esprimersi, cosicché il suo fluire sia leggibile ed appaia sensato, può succedere, e succede, che la forza del sentimento popolare, lambendo l’argine fino al culmine e quasi tracimando, dirotti il corso del fiume in una direzione del tutto contraria all’attesa. E’ un po’ quel che è successo in Francia.
Al di là di come e qualmente sia avvenuto, per quanto il punto di attrazione attorno a cui si è coagulato questo diniego diffuso della destra, abbia finito per essere rappresentato da Mélenchon, cioè l’approdo più lontano, perfino per molte formazioni che pur vi hanno concorso, questo è pur accaduto. Poi si potranno fare, come avviene, mille arzigogolate considerazione, ma il pronunciamento della Francia è chiaro e lampante: non vuole essere governata dalla destra.
In alcuni momenti di possibile passaggio epocale, ciò che più conta è che vi sia un punto, uno solo, purché dirimente, esplicito e chiaro, da cui non possa prescindere nessuna deduzione successiva Popoli che hanno gustato ed apprezzato il valore della libertà e della democrazia, possono usare la destra e varie forme di populismo per contorcersi e lamentarsi nei loro mal di pancia, ma poi se ne guardano bene dall’affidarsi alle loro terapie.
Insomma, un popolo difficilmente smarrisce la propria libertà, sia pure a favore di un suadente “uomo forte”, se non è esso stesso a concederla. E questo è molto confortante anche per noi.
In Francia, in buona sostanza, ha vinto un’attitudine, una imprevista disposizione alla “proporzionalità” della rappresentanza, l’esigenza, per quanto attiva sotto traccia, che quanto più possibile tutte le voci vive del contesto civile approdino al libero “discorso pubblico” parlamentare. A maggior ragione, in una società complessa e nulla concedendo alla fallace semplificazione del “comando” esercitato da un potere centralista e personalizzato. Che finirebbe, per di più, per creare aree di opinione di carattere “extraparlamentare”, cioè emarginate, fuori dai canoni di una comune e ragionata dialettica e, come tali, in prospettiva pericolose.
In una fase storica come quella che oggi l’ intera Europa attraversa, non tutto è assolutamente lineare e nulla è semplice. Convivono tendenze contrastanti, quasi che siano impegnate in un processo di selezione destinato a chiarirsi solo nel tempo. Anche in Francia, detto altrimenti, la domanda di proporzionalità si è, a suo modo, affermata, pur a fianco di una tendenza alla polarizzazione delle estreme tutt’altro che spenta.
Anche questo deve far riflettere dal momento che l’estremismo – nelle persone singole come nei corpi sociali – è una malattia infantile che s’impone di per sé, per una sorta d’indole caratteriale che precede il suo stesso orizzonte valoriale, declinato a destra o piuttosto a sinistra.
Domenico Galbiati