Se non intendiamo arrenderci, ma, al contrario, osiamo uscire da una sorta di dissipazione degli eventi che, in un certo senso, si fanno da sé e si accavallano confusamente, se vogliamo “costruire la storia”, abbiamo bisogno, a monte, di “vivere la fede”. Una fede, se non in Dio com’è per i credenti, nell’ umanità e nel suo destino, nel valore e nel senso della vita, in una qualche idea di progresso.
Mi pare che qui converga, in ultima istanza, la sintesi cui concordemente giungono le riflessioni di grande interesse che il professor Giuseppe Ignesti ed il professor Maurizio Cotta hanno offerto ai giovani di INSIEME, nel quadro della giornata di lavoro promossa dal Laboratorio di Formazione Politica, guidato da Giorgio Rivolta.
Ignesti e Cotta hanno offerto un repertorio di considerazioni ed argomenti da cui trarre intuizioni, spunti, materiali da sviluppare.
Oggi – diversamente da quanto sarebbe stato appena dieci giorni fa – da traguardare allineandoli entro una visuale del tutto inedita, anzi da ricercare con fatica, in questo tempo impensabile, imprevedibile ed imprevisto, incamminato verso esiti che si sottraggono ad ogni ragionevole prognosi. Chi appartiene alle generazioni dell’immediato dopo-guerra e si è trovato ad avere vent’anni o giù di lì nel momento della contestazione giovanile e poi quaranta o poco più quando è crollato il muro di Berlino, poteva immaginare di trasmettere alla generazioni di chi oggi ha vent’anni , un mondo che, per quanto terribilmente complesso e letteralmente da reinterpretare e trasformare, mostrasse comunque una linea evolutiva, in qualche modo decifrabile, cosicché spettasse loro accompagnare l’umanità verso la sommità di un crinale da cui scorgere, sia pure ancora da lontano, alcuni tratti, pur nebulosi, di un’epoca nuova.
Il martello della pandemia si è abbattuto fragorosamente sull’incudine dell’umanità e, non appena la presa sembrava allentarsi, l’invasione dell’Ucraina le ha assestato un altro terribile colpo di maglio. Come se questa rapida ed impellente successione di rovesci, che subentrano l’uno all’ altro, senza lasciarci respiro, rispondesse ad una connessione profonda, forse necessaria, che pure non riusciamo a scorgere. Si potrebbe dire che siamo riconsegnati a noi stessi. In una condizione di sostanziale dissoluzione di argini o vincoli esterni che ordinino gli eventi in un alveo che li renda comprensibili e che ci guidino o ai quali, in qualche modo, possiamo affidarci, siamo di fronte ad uno specchio che ci rimanda l’immagine di una solitudine che può trovare conforto solo nell’interiorità nuda della nostra coscienza.
In questo stato di penosa “sospensione” subentra un sentimento di sottile angoscia, che pervade le singole persone e del tutto analogamente le comunità e risuona come un appello ultimativo alla nostra responsabilità. Maurizio Cotta ci ha detto come sarebbe vano coltivare un’ aspirazione al “bene comune” ed alla pace che sia pure idealmente alta, se non fossimo capaci di “costruire”, cominciando dalle istituzioni necessarie e pertinenti all’obiettivo, strumenti ed apparati, soluzioni operative ed efficaci che siano in grado di incarnarla fattualmente nella storia dei nostri giorni.
Giuseppe Ignesti è andato alla radice, invocando un nuovo, radicalmente nuovo modello di sviluppo, diretto, appunto, a “costruire la storia”. Ha richiamato la dottrina delle “polarità” di Romano Guardini. Vi ha ravvisato un nesso importante con la concezione che della politica – una politica “nel mezzo” – ci propone Sturzo ed ancora una sintonia con l’insegnamento di Papa Francesco.
Una riflessione da cui ha derivato un importante chiarimento sul ruolo centrale di una politica ispirata alla mediazione che nulla ha da spartire con il “centro” come da molti viene proposto oggi. Siamo nel tempo, affascinante, di un pensiero “incompiuto” – ci ha detto Ignesti – su cui, anche da queste pagine, dovremo tornare a riflettere. Un tempo che tocca ai giovani catturare.
Domenico Galbiati